"Parlo di intelligenza, un vocabolo generico che assomma diverse operazioni
della stessa facoltà: intelletto, ragionevolezza, memoria, consapevolezza,
coscienza, e altre ancora. Intelligenza da inter-lego (en lego = raccolgo per
scegliere); in italiano lo tradurrei in facoltà di apprendere per ragionare. \
Si può anche dire che l’intelligenza è intelletto, in quanto percepisce i
principi immediatamente senza processo razionale. Per esempio, «tutto ciò che si
muove è mosso da altri». Di solito per intelligere si intende anche immaginare,
credere, capire e soprattutto ragionare. Preferisco la definizione di
«apprendere per ragionare», perché l’apprendere per ragionare è proprio della
specie umana, mentre il solo apprendere è proprio anche del genere animale. Come
l’animale anche l’uomo apprende, ma l’uomo apprende per razionalmente elaborare.
Ciò rende l’uomo un individuo o essere inconfondibile con altri esseri, né da
essi derivabile se non per creazione apposita da parte di chi ha un’insuperabile
pienezza intellettuale senza spazio e senza tempo.
Nessun dubbio che l’uomo
sia essere pensante. Né alcun dubbio che la sua identità e, quindi, il suo
pensare l’abbia avuto dal Genio Assoluto. Per sinaptogenesi? Un modo di creare
dal nulla se non da sé increato e inesauribile. Dubitarlo? È come pensare che
l’intelligenza detta, impropriamente, artificiale alla quale si pensa di dare
una sua autonomia, non sia creazione dell’uomo intelligente che in qualche modo
la comunica dal suo sé mediandola con la filosofia metodica, con la linguistica,
con la psicologia cognitiva e l’informatica. Ma il potere intellettivo, a ben
pensarci, è non solo componente dell’identità uomo, ma anche - per dirla in
latino barbarico - il suo ipsismo, quello, cioè, che è lui stesso e non il
simile, ma quello unico e irripetibile.
Ora, però, parliamo di intelletto e,
quindi, di potere intellettivo dell’uomo in quanto sostanzialmente e non
evolutivamente proprio dell’uomo. Ciò, non per negare che l’intelletto nella sua
espressività non possa, anzi non debba, evolversi, ma la sua potenzialità, il
principio da cui tutto il suo derivato emana, è realtà indivisibile dal corpo e
dall’anima, di sua natura invariabile come l’io, che né con l’età né con le
contingenze può mutare.
È, cioè, quell’identità-uomo che Aristotele chiama
sinolo, cioè materia e forma in un unum. Corpo-intelligenza-anima: un sinolo,
dunque, di tre componenti tra loro inseparabili, pena la nullità di uomo. Ma
quale la funzione dell’intelligenza tra le altre due componenti del sinolo? Oso
dire che l’intelletto è cerniera o albero di trasmissione simultanea tra
corpo-materia e anima-forma o sostanza. L’intelligenza imbevuta nell’amore è nel
corpo e nell’anima, come entità identificante dell’uno e dell’altra. Ho detto
intelligenza imbevuta d’amore perché l’intelligenza, come la fede, senza amore
cade «come corpo morto cade». Corpo, intelligenza e anima sono genoma-uomo in
senso di specie e di individualità. Non può non essere così, pena il mio non
essere io. È proprio la mia intelligenza che lo percepisce e lo pretende, lo
cognitivizza e lo spende a diversi livelli: la logica, l’empirica, la
metafisica.
Platone ci insegnò a penetrare, anzitutto, nei cieli della metafisica senza
alcuna obiezione aprioristica di tipo «criticistico kantiano». Conoscenza per
intuizione. Egli navigava nel divino delle idee quale innato principio, primo
nell’ordine logico, senza cui nulla è intellettualmente conoscibile. La
concezione platonica anticipa il teismo e la soprannaturalità cristiana,
arricchita dalla rivelazione. Direi che a fronte di quella, il concretismo si
smarrisce come in un’atmosfera non respirabile.
Aristotele è anch’egli un
aristocratico della cultura. Per la conoscenza segue, peraltro, la via
apodittica (apodeiknymi = dimostrare) e, cioè, deduce da un’evidenza la
conoscenza per dimostrazione logica. La prima è la via agostiniana, la seconda è
la tomistica. Ambedue confluiscono nella verità rivelata anch’essa modalità e
argomento del conoscere, sempre proprietà dell’intelletto. L’intelletto, quindi,
è capacità dell’apprendere per ragionare. Anche l’high-tech ne è il prodotto,
come tutti i media elettronici. Il raziocinio, infatti, è la facoltà di
valutazione tra concetti sulla base della logica e dell’evidenza. Ma
l’intelligenza è nata dall’intelligenza di Dio e in Dio converge.
Faccio un
doppio raziocinio in un esempio unico: 1) Albert Einstein, un sommo matematico e
fisico, ha scoperto la relatività studiando la gravitazione, l’atomo, o molecola
materiale, la teoria dei calori specifici e quella dei quanti e, perciò, dei
fotoni. Si può dire che palleggiava la metafisica e la fisica quasi sua innata
facoltà, con metodo induttivo, statistico ed equazionale. Alla luce di ciò, il
suo rigore logico lo portò alla fissione nucleare. Ne fu sgomento e argomentò:
la scienza senza Dio e storpia e pericolosissima. 2) Ed ecco il secondo
raziocinio: se un uomo come Einstein alla luce del suo dedotto scientifico ha
dovuto sconfinare in Dio e se come lui innumerevoli altri, infinitamente più
acuti di me in svariate discipline, hanno raggiunto una tale deduzione, anch’io
posso credere, avendone oltretutto anche le mie buone ragioni personali. Ne cito
una: se la mia intelligenza, per niente eccezionale, si spinge come quella di
molti altri vicino a Dio, volendolo anche toccare, non è giusto che anche
l’intelligenza di Dio si pieghi verso la mia sì da toccarmi? La risposta è
l’Incarnazione di Dio quale Cristo ha dimostrata in sé. \
Fin qui parliamo
del come conoscere, oggi reso più facile anche in termini di che cosa conoscere.
Com’è chiaro, il come si conosce è argomento di psicologia, di dialettica, di
logica, di criterio logico ecc. Qui, però, si vuol dissertare del conoscere come
sua fonte e potenza, cioè dell’intelletto che, pur nell’evoluzione dei metodi,
dell’ambiente, delle conquiste, rimane sempre una potenzialità formidabile,
inconfondibile con il suo obiettivo e le sue conquiste. Parliamo, dunque, della
macchina in sé, non della strada o della meta. Quella potenza che mentre cammini
vola, che mentre leggi, in continuità pensa. Perfino quando preghi, disperde
energia in mille direzioni a danno della verticalità.
Ricordo di aver letto
nell’autobiografia di Teresa di Lisieux che prima di centrare il concetto di
Padre nostro, lo doveva ripetere moltissime volte «Padre nostro, Padre
nostro...» e poi, coerentemente procedeva. La conoscenza, quindi, è il prodotto
dell’intelletto che accoglie le informazioni, le metabolizza, le processa, ne
deduce e perciò le moltiplica sino a farne un sapere senza fine che crea sapere
e progresso, che investe sempre meglio la potenza dell’intelletto con la fiducia
spesso accanita, quasi indomabile istanza del sapere. Lo ritengo effetto di quel
possidete eam» che il Creatore, agli inizi della nostra specie dotata di innata
intelligenza, ci iniettò consegnandoci l’universo. Da qui la cognitivizzazione
che il potere dell’intelletto può spingersi anche oltre ogni limite sferico,
anzi è la sua istanza naturale.
Platone ce l’ha detto. Aristostele lo
convalidò partendo dall’empirismo. Andare, cioè, verso là donde l’intelletto è
emanato. Il dito del Creatore nella Sistina di Michelangelo ce l’ha evidenziato.
Molti filosofi ci sono arrivati a toccarlo con il dito. Pochissimi hanno bucato
questa sfera intravedendovi l’aura soprannaturale. È la logica, più l’amore, che
vi ci «conduce». Innegabilmente Dante e sommi asceti, come Paolo di Tarso, lo
sperimentarono e ve ne rimasero contagiati sì da calcare con il tacco le cose di
quaggiù non in senso spregiativo, ma nel senso che l’intelligenza pretende molto
di più. L’idea della caverna in Platone non era spregio dell’essere corpo, ma
tensione della sua eccezionale intelligenza che sapeva d’esser molto di più che
solo corpo.
Intelletto: un potere, quindi, rapidissimo anzi fulmineo in linea
orizzontale senza limite circolare, in linea verticale, perpendicolare a Dio
stesso che ne rivela l’obbligatoria derivazione creazionale dal Sé di Lui
stesso. Infatti, quando la mia intelligenza o, più semplicemente, il mio
pensiero tenta di toccare Dio con spontaneità, lo bacia e poi se ne ritrae come
da un amabile evidente, ma impossibile. Quando però ci si vuol impegnare a
capire Dio, ci si perde come nella sfera stellare e l’intelligere diventa
semi-contemplazione per la quale il tempo è sempre stretto. L’intelligenza
totale pretende l’eternità.
Lo so, altri preferiscono la pigrizia della
rinuncia e si auto-definiscono atei, ma trattasi di un ignavo velo rinunciatario
alla propria intellettualità. Come esce il pensiero dall’apparato neurotico
cerebrale? Ma esce da lì? A pensarci bene me ne pullulano serissimi dubbi.
Riservo a me la consapevolezza psicocognitiva che l’intelligenza è componente
imprescindibile e inseparabile del mio io, che in se stesso non è materialmente
quantizzabile. Solo la sua applicazione e il suo prodotto lo possono essere.
L’intelligenza non è anatomizzabile perché non è fatta di parti come non lo è lo
spirito. Quindi, l’intelligenza è eterna e proviene dall’Eterno. La sua
attività, in quanto io, inizia nel tempo in uno con la morfologia del corpo e
con l’infusione dell’anima.
Se dal cerebro anatomico esce il pensiero, il
come, il quanto, il numero, la velocità, la locazione dei neuroni del lobo
frontale o parietale, od occipitale, e loro funzione, quali siano nella massa
cinerea o corticale, dove stiano i neuroni-specchio, quelli cioè che facilitano
la conoscenza del mio prossimo, se interfacciati da onde elettriche, se e come
sia utilizzabile meccanicamente la funzione della corteccia cerebrale, se il
cervello nasce con l’innata «grammatica generativa», come suppone Noam Chomsky,
di tutto ciò non ho competenza per disquisire. So, però, che la scienza e un
prodotto dell’intelligenza. La sapienza? È un sovra-sapere impregnato di sapore
divino. Questo io capisco mediante la logica."
* Presidente della Fondazione
San Raffaele e Rettore
dell’Università Vita-Salute
San Raffaele