giovedì 17 marzo 2016

Commento a http://www.ilfoglio.it/politica/2016/03/16/il-patto-tra-renzi-e-imprenditori-in-5-punti___1-v-139453-rubriche_c105.htm



Forse basterebbe un giretto su https://it.wikipedia.org/wiki/Benetton_%28azienda%29 per togliere un po’ di porporina dalle parole di Alessandro Benetton, “... imprenditore, fondatore e presidente, dal 1992, della 21 Investimenti, gruppo europeo di private equity, e già presidente di Benetton Group (fu presidente nel momento della transizione da lui guidata da azienda familiare ad azienda manageriale).”.
Troppa grazia, egregio, Le fu elargita prima che Ella, ad appena ventisei anni iniziasse a fare il lavoro che fa. Il patrimonio imprenditoriale di famiglia era talmente vasto che Ella, da questo punto di vista non può essere considerato qual pietra angolare da prendere in considerazione.

Leggo: “Da questo punto di vista credo sia un bene che ci sia una classe dirigente al governo molto giovane, de-ideologizzata, per certi versi incosciente che non si vergogna – tratto che trovo positivo, non negativo – di cambiare qualche volta idea.”
Ah, secondo Lei, al governo è insediata una classe dirigente giovane e de-ideologizzata... Ha provato, negli ultimi cinquant’anni a farsi un giro negli ambienti scolastici perfino di primo grado, per non parlare delle università, territorio tanto caro alla sfegatata Sinistra mangiatutto? Se lo ha fatto e ha ancora il coraggio di parlare di de-ideologgizazione, complimenti. In quanto ai giovani al governo... sempre secondo Lei, chi ce li ha sistemati per benino quei giovani, in gamba o meno in gamba, preparati o meno, onesti o meno... mica, per caso, non sia mai, i vecchi incancreniti potentastri di vecchia data, noooo?

Lei pontifica. L’Italia necessita di ben altro. E nemmeno tanto di questi “giovani de-ideologgizati” che, al contrario, a mio parere, sono severamente governati a bacchetta, pena l’uscita dal “giro”...”. Personalmente, sono ben adulta e ho convinzioni liberali e quanto vorrei detenere il potere, quello vero, quello di Merlino e di Morgana, per un paio d’anni. Anche la bacchetta magica vorrei, per comandare al marciume di scomparire sotto terra e rimettere in piedi con mosse mirate, corrette, indirizzate alla ripresa di questo Paese eroso e corroso da pochi. Ma forse i pochi sono troppi. Comunque, troverei il modo di farli smaterializzare. L’Italia è un Paese a ben altre vocazioni e quelle sono state ignorate e calpestate e oggi si blatera di riportare in auge di questo e di quello. Chiacchere. Ci vuole prima una decisa piazza pulita, nelle imprese, tra la gente imbastardita, tra chi condiziona in infinite maniere il vivere sociale, causando profonde modificazioni antropologiche irreversibili, al solo, vero, disgraziato fine di ottenere un profitto.

La società di “bassa lega”, il “popolino” e, ormai, la media borghesia, vengono palesemente sfruttati e divorati come fossero pastura per piranha. Magari, un giorno, qualche piranha finirà col diventare più grosso e più grasso degli altri e li divorerà per poi scoppiare.

Commento a http://www.ilfoglio.it/politica/2016/03/17/centrodestra-roma-in-che-senso-ha-ragione-berlusconi-quando-dice-che-roma-storia-di-fasci___1-v-139501-rubriche_c223.htm




Fini, senza vergogna, si taccia. In quanto alla signora Giorgia Meloni candidata sindaco di Roma... la vedo drammatica, al di là della retorica di cui le "femministe" infarciscono i loro proclami. Deus meus. Ho portato avanti quattro gravidanze; affrontato quattro parti; cresciuto quattro figlie. Oggi sono alle prese con una seconda nipote che per crescere presto e bene risucchia pure l'anima della madre, giorno e notte. A meno che la signora Meloni non intenda delegare (in gravidanza per motivi di stress che certamente un eventuale mandato finirebbe per causarle, e in periodo di allattamento perché dovesse essere che la notte dorme poco e il giorno meno) come pensa, fosse mai, di potercela fare ad affrontare il mostro Roma Capitale, dovesse toccarle la sorte di venire eletta Sindaco di detta città? Roma e il marciume e il degrado e la corruzione che la sommergono e rendono invivibile e non-amministrabile; Roma che va obbligatoriamente recuperata in modi e maniere che nemmeno uno Zeus armato di fulmine se la potrebbe vedere tanto buona... Roma che fu Caput Mundi e che oggi è letteralmente una cloaca... signora Meloni, essere donna in via di diventare madre dovrebbe significare principalmente mettere in secondo piano ogniqualsivoglia interesse altro che non sia quello del benessere psicofisico Suo e della creatura che porta in grembo e che si fida di Lei. Signora Meloni, non ci saranno, eventualmente, soltanto campagne elettorali sfinenti ed Ella lo sa bene. Il peggio verrebbe dopo. Altro discorso sarebbe se Ella fosse una "semplice impiegata", di quelle che al mattino fanno la chiamatina in ufficio per comunicare che non si presentaranno al lavoro per via di una qualche indisposizione. Lei comprende la differenza, ne sono certa. Le femministe sfegatate, quelle delle quote rosa ad ogni costo, quelle che casa e famiglia mamma mia che schifo io ho studiato e voglio contare... sì, le ore, el dinero, le discussioni fuori le mura... Signora Meloni, io contavo, a suo tempo. Anche el dinero. Ma ho preferito essere congruente con la scelta di formare una famiglia. Una FAMIGLIA, presa sul serio, col dovuto senso di responsabilità... altro che amministrare un Comune. La Famiglia, abbandonata e falsamente beatificata a chiacchere da questo Stato infido e patrigno, resta il vero baluardo contro la mercificazione di un Popolo. Io ci credevo e insieme a mio marito, ho contribuito alla crescita di quattro ragazze perbene, creative, studiose, che oggi operano onestamente all'interno del tessuto produttivo di questa povera Italia. Pensi Lei, pagano perfino le tasse. Lei ha la libertà di scegliere e di dare un vero esempio alle donne Italiane, quelle col cuore in mano. Penso che dal cuore e dal rispetto degli ideali basilari della Vita, solo, possa scaturire l'amore per una buona politica, democratica, al servizio del benessere comune. Non del Comune.


mercoledì 16 marzo 2016

http://www.ilfoglio.it/economia/2016/03/13/economia-sbraita-sulla-diseguaglianza-per-sottomettere-individuo-allo-stato___1-v-139348-rubriche_c287.htm



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Les putains de la République, articolo di Ritanna Armeni

Les putains de la République

Il tabù della prostituzione al centro della disputa tra Agacinski e Badinter, femministe e filosofe francesi (che non sono mai d’accordo su nulla)
di Ritanna Armeni | 28 Novembre 2013 ore 06:59

Donne rivali, sì rivali, che si scontrano apertamente e aspramente alla faccia di chi le donne le vorrebbe sempre d’accordo, sempre solidali e, quindi, un po’ sceme. Elisabeth Badinter e Sylviane Agacinski sono due filosofe anzi, come ha detto qualcuno, due star della filosofia. Si avviano ai settant’anni e sono belle. Entrambe hanno alle spalle un impressionante elenco di libri, articoli e saggi. Entrambe appartengono alla gauche, sono madri (la prima di tre figli, la seconda di uno) sono e sono state legate a uomini importanti. Sylviane Agacinski, madre francese e padre ingegnere polacco immigrato in Francia, ha avuto un figlio dal filosofo Jacques Derrida, il teorico del decostruzionismo, ed è sposata da molti anni con Lionel Jospin, ex primo ministro e mostro sacro dei socialisti francesi. Elisabeth Badinter, figlia di Marcel Bleustein-Blanchet, magnate e fondatore di Publicis, terzo gruppo editoriale al mondo, è la moglie di Robert Badinter, ministro della Giustizia di François Mitterrand quando la Francia abolì la pena di morte.
Entrambe si dichiarano femministe. In cima ai loro interessi c’è e c’è sempre stato il rapporto fra i sessi. Su questo hanno scritto la loro montagna di opere. Eppure, queste due donne apparentemente simili, non sono d’accordo quasi su nulla e su tutto discutono, polemizzano, litigano da anni. E ogni volta mettono sul piatto del dibattito pubblico principi, valori, visioni del mondo.
La battaglia più recente è di qualche giorno fa, a proposito della legge che vuole introdurre in Francia sanzioni per i clienti delle prostitute, e che in questi giorni è all’esame dell’Assemblea nazionale. Agacinski a favore, Badinter contro. Negli ultimi mesi lo scontro era stato sulla legge che introduce il matrimonio gay. Badinter a favore, Agacinski contro. E ancora, corollario della questione precedente, sulla legalizzazione della pratica dell’utero in affitto. Badinter a favore. Agacinski contro.

Elisabeth Badinter ha posizioni nettamente gauchiste che lei è capace di declinare con una autorevolezza speciale e occhi di ghiaccio. In un’audizione all’Assemblea nazionale ha parlato a favore del matrimonio fra omosessuali per tredici minuti. Severa, pedagogica, inflessibile. E’ apparsa rispettosa certo, ma sotto sotto un po’ sprezzante. “Chi lo rifiuta – ha spiegato – lo fa per due ragioni: per il fatto che esiste una rappresentazione millenaria dell’unione della donna e dell’uomo come l’unica legittima nella nostra società e per il fatto che il matrimonio per tutti aprirebbe la via all’omoparentalità”. Lei smonta le obiezioni. “Si dice spesso – afferma – che un bambino ha bisogno di una madre e di un padre per crescere bene. Del papà perché lui nell’immaginario collettivo è fermo, severo, retto e inflessibile, della mamma perché si suppone dolce che cucini bene e usi l’ammorbidente Cajoline. Ma – prosegue Elisabeth Badinter – non perché si è madre o padre che si è buoni genitori capaci di rispondere adeguatamente ai bisogni dei bambini. Non è perché si è messo al mondo un bambino, che si è dotati degli ormoni della maternità, che si saprà amarlo. L’istinto materno è un mito e la femmina non è che una femmina animale. Ha una storia e un inconscio che potrebbero giocare i peggiori scherzi con tutte le conseguenze che si sanno sul bambino. In fondo – conclude – si parte come sempre dall’idea che una donna è fatta per amare i bambini che porta in grembo. Non ne posso più di questo pregiudizio naturalista che è smentito tutti i giorni. Dobbiamo accettare che le donne sono diverse”.
Ha un che di rassicurante per noi donne di sinistra la inflessibilità di Elisabeth Badinter. Anche ciò che può sembrare oramai luogo comune appare pensiero nuovo e luccicante. E poi le riconosciamo una coerenza che ci ha aiutato non poco. Sono anni che lei, madre di tre figli, cerca di smontare quel “mito della maternità” che ha oppresso decine di generazioni di donne. Dopo quell’altra benemerita che negli anni Settanta ci ha aperto un mondo (parlo di Betty Friedan e della sua “Mistica della femminilità”) lei ci ha dato una bella mano. Ricordo ancora il senso di liberazione che ho provato quando ho letto ormai molto tempo fa “L’amore in più. Storia dell’amore materno” (pubblicato nel 1981 da Longanesi e da poco ripubblicato da Fandango). Sosteneva che quel sentimento così celebrato e ritenuto “naturale” era in realtà recente, prima le madri non avevano mica quell’attaccamento ai figli che oggi va tanto di moda. E poi la soddisfazione che ha procurato a me, madre imperfetta, il suo più recente. “Le conflit: la femme et la mère”, tradotto in Italia con “Mamme cattivissime?” (Corbaccio). Elisabeth Badinter fa l’elogio di quella madre mediocre in cui tante anche delle nuove generazioni possono riconoscersi. E se la prende con quella alleanza reazionaria formata dai movimenti ecologisti, da una vasta corrente di pediatri e di psicologi e dal “femminismo della differenza” che le colpevolizza chiedendo loro la perfezione e in realtà vuole distruggere “la donna” in nome della “madre” e “che al figlio deve tutto il suo latte, le sue cure, il suo tempo, le sue energie. Una nuova forma di dominio maschile”, dice.
A leggerla si tira un sospiro di sollievo. Ci culliamo con qualche serenità in quelle sicurezze che abbiamo faticosamente conquistato. Poi incontriamo Sylviane Agacinski e le nostre contraddizioni ci vengono ributtate tutte addosso. Perché finora siamo state convinte che la libertà della donna non possa non coincidere col benessere e la libertà dell’umanità. Lei non la pensa così. E quindi addio sicurezza nell’emancipazione e nell’infallibilità del progresso.
Sylviane Agacinski non è d’accordo col matrimonio gay. Lo ha detto e ripetuto fin da quando in Francia è iniziata la discussione in Parlamento. Ma non si deve pensare a un Giovanardi in gonnella. Non è una retriva, una reazionaria, omofoba e perbenista. E’ preoccupata per le implicazioni delle scoperte scientifiche, che permettono agli omosessuali di avere figli sconvolgendo rapporti biologici e certezze millenarie, provocando la fine della civiltà e della società così come l’abbiamo conosciuta finora. La famiglia – dice – non può che essere dominata da una matrice biologica, “perché anche cercando l’universale nelle nostre vite non possiamo non riconoscere che un figlio può originarsi solo da un padre e una madre, ovvero da un uomo e una donna”. E poi il grido d’allarme: il matrimonio fra persone dello stesso sesso, l’accettazione che essi possano avere dei figli non può che portare al mercato delle madri surrogate, e quindi al commercio di esseri umani. Ammetterete che chi, per appartenenza alla sinistra, ha già molte difficoltà ad accettare il lavoro come merce, immaginare il corpo femminile comprato e venduto perché possa fare figli per qualcun altro provoca qualche brivido. Anche noi, pur convinte che sulla maternità sono state raccontate un sacco di frottole a uso e consumo maschile, quando sentiamo i dati sui prezzi dell’utero, sul business che si è creato attorno a esso, o osserviamo la condizione delle madri surrogate e la pericolosa deriva dei compratori che pagano e quindi vogliono il figlio bello, alto, biondo, con gli occhi azzurri, e per questo si rivolgono preferibilmente ai paesi dell’est, rimaniamo inorridite. Dice Sylviane Agacinski: dietro il matrimonio gay c’è una deriva pericolosa, la fine della procreazione e dell’avvicendamento della generazione così come li abbiamo conosciuti finora. E non protegge per niente la donna, anzi ne utilizza il corpo, lo rende merce. E certo non ci sono dubbi sul fatto che nel nuovo mercato dei corpi saranno le più deboli e le più povere a rimetterci. Anche lei ha scritto un libro che è stato riedito proprio in queste settimane “Corps en miettes”, corpi in vendita, nel quale chiama alla resistenza contro il baby business che ha bisogno dell’utero in affitto. La propaganda in favore del Gpa (gestation pour autrui), scrive “non maschera la violenza di questa pratica. Si deve resistere in nome della dignità della persona umana”.
Sylviane Agacinski parla in nome dell’umanità, del suo futuro. Anche lei lo fa con la durezza di chi afferma principi incontestabili. Ed è questo che, a un certo punto, lascia dei dubbi. Come si sa in nome dell’umanità sono stati commessi molti delitti e si sono fatte le peggiori nefandezze. In nome dell’umanità si è ucciso e torturato. Ma senza andare così lontano possiamo dire che, sempre in nome dell’umanità, si è procurata l’infelicità di molti singoli, uomini e donne che hanno dei problemi e cercano di risolverli, che per esempio vogliono un figlio e non riescono ad averlo, sono omosessuali e non vogliono essere discriminati nei sentimenti, sono malati che vogliono che il progresso scientifico dia loro delle cure. E’ per loro concretamente che si fanno le leggi. E allora forse il problema è averne cura, indirizzarli, aiutarli a comprendere e perché no? fare tutto quello che le leggi umane, nella piena consapevolezza della complessità e dei rischi, possono fare per eliminare disagi, ingiustizie e regalare un briciolo di felicità in più. Dirigerla secondo principi che suonano astratti è spesso crudele.
Elisabeth Badinter attacca la rivale proprio su questo punto. Prende le parti di chi soffre, di chi rivendica un pezzo di felicità. Il corpo può essere gestito e non, necessariamente e mercantilmente, usato. Quindi ci può essere una gestazione attraverso un’altra e questa può essere “etica”, non remunerata e quindi può essere legalizzata. Di conseguenza ha chiesto il riconoscimento dei figli nati all’estero attraverso la Gpa. “E’ una pratica riconosciuta – ha detto – come parte integrante della procreazione medicalmente assistita da parte della Organizzazione mondiale della sanità”. “Ci sono tante donne – racconta ancora – che adorano essere incinte e che non sopportano la responsabilità di educare un figlio. Ne ho abbastanza – e queste parole sono indirizzate direttamente a Sylviane Agacinski – che si usi la parola mercificazione. Prevedere la possibilità di portare un figlio per altri mi sembra apra a qualcosa di accettabile e sostenibile”. Secondo Elisabeth Badinter, insomma, è possibile un sistema che verifichi che la madre portatrice sia gratuita e tutti gli intermediari siano gratuiti. Possibile, ma difficile, verrebbe da rispondere. Perché i dati in questo caso sono inequivocabili e crudeli. Sono pochissime le donne che offrono gratuitamente il proprio corpo perché un’altra possa avere un figlio. Molte, invece, a quanto pare, sono disposte a venderlo. E con questo bisogna fare i conti. Se Sylviane Agacinski per difendere le sue idee ha bisogno di una concezione pessimista dell’umanità, Badinter ne dà una troppo ottimista.

L’ultimissima puntata (per ora) dello scontro fra le due riguarda, come si diceva all’inizio, la prosposta di legge sulla prostituzione che punisce il cliente con una ammenda di 1.500 euro, raddoppiabile in caso di recidiva. Agacinski è d’accordo, e l’ha sempre sostenuta anche quando decine di intellettuali, in un appello pubblicato dal Nouvel Observateur, si sono pronunciati contro. Tanto più la difende oggi di fronte all’appello dei “343 salauds” che hanno provocatoriamente protestato al grido “touche pas à ma pute”, giù le mani dalla mia puttana. Non si sono fatte attendere le dichiarazioni opposte di Elisabeth Badinter, tra i firmatari dell’appello sul Nouvel Obs (“pensiamo che ciascuno abbia il diritto di vendere liberamente le sue virtù, e persino di trovarlo appagante. Rifiutiamo che dei deputati emanino norme sui nostri desideri e sui nostri piaceri”). “La proposta di legge mi sembra una dichiarazione di odio contro la sessualità maschile – ha dichiarato – e lo stato non deve legiferare sulla sessualità degli individui, decidendo cos’è bene o male”. E in un’intervista pubblicata il 29 ottobre scorso dal Corriere della Sera ha insistito: “Esiste la prostituzione libera praticata da persone che decidono consapevolmente e senza costrizione di disporre del proprio corpo. Io, da vecchia femminista degli anni Settanta, penso che una donna abbia il diritto di usarlo come vuole. O lo stato vuole promuovere l’ideale di una sessualità sempre e solo legata all’amore? E chi gliene dà il diritto?”. “Non è normale – ha detto il 20 novembre al Monde – che le donne possano prostituirsi mentre agli uomini sia proibito andare con le prostitute”. Si può lottare contro la tratta e la schiavitù solo se le prostitute possono denunciare chi le sfrutta senza temere per la propria vita. Quindi devono usufruire dell’assicurazione sanitaria, devono avere dei documenti, devono essere aiutate in tutti i modi possibili. Punendo i clienti non si risolve niente.
Il legislatore, risponde Agacinski, “non ha la vocazione di intervenire nella morale privata delle ‘mantenute’ o dei ‘gigolò’, cosa che peraltro gli sarebbe impossibile. Ma è suo compito dire se il corpo umano e suoi organi possono essere considerati come merci a disposizione del pubblico, cosa che sarebbe contraria al diritto francese”. A coloro che rivendicano la libertà di prostituirsi, che affermano la libertà di ciascuno di fare ciò che vuole del proprio corpo, risponde che questa libertà in realtà nasconde “l’ineguaglianza sociale tra acquirenti e venditori” e si appoggia “su un sofisma”: “Affittare i propri organi, metterli a disposizione di una folla di clienti che ne fanno uso o abuso a loro piacimento, perché pagano, costituisce una rinuncia alla libertà e un asservimento specifico delle persone che si prostituiscono. Non ci può essere una ‘libera’ prostituzione così come non vi può essere una libera schiavitù”. E ancora: “La libertà di prostituirsi è ugualmente un’illusione in un’epoca in cui le prostitute realmente indipendenti rappresentano una parte infima della prostituzione, dominata dalle reti più che organizzate dell’industria del sesso”.
Il litigio continua e, a pensarci bene, non può che essere così perché queste due donne, filosofe, femministe e da anni abituate a intervenire nella sfera pubblica con tutto il proprio peso non sono in disaccordo su questa o su quella questione legislativa, ma su temi fondamentali, a cominciare da quello su cui due femministe in un immaginario comune dovrebbero essere d’accordo: il ruolo e la libertà della donna nella civiltà occidentale. Per Elisabeth Badinter le donne devono smettere di considerarsi e di farsi considerare delle vittime. Oppure di presumere una certa superiorità morale in quanto donne. E, ancora, cercare la vendetta sugli uomini. “A voler ignorare sistematicamente la violenza e il potere delle donne, a proclamarle sempre oppresse e quindi innocenti, si dipinge un’umanità divisa in due che non corrisponde alla verità. Da un lato le vittime dell’oppressione maschile, dall’altro i carnefici onnipotenti”, afferma provocatoriamente. Già nel suo saggio del 2003 intitolato “Fausse route” (in italiano “La strada degli errori. Il pensiero femminista al bivio”, Feltrinelli), Badinter aveva attaccato la misandria, le nuove leggi sulla “parità” politica e il modo in cui per legge si pensava di risolvere la questione della violenza e dei delitti ai danni delle donne. Le sue dure parole le hanno guadagnato l’accusa di non essere più una vera femminista, e lei ha risposto che “la vocazione del femminismo non dovrebbe essere quella di condurre una guerra di genere cercando una vendetta contro gli uomini”. Ciò che le donne devono raggiungere positivamente e senza tante storie è un’eguaglianza che nella storia per lungo tempo è stata loro negata.
Eguaglianza? Sylviane Agacinski – ci pare di vederla – scuote la testa. Anche lei abbandona ogni diplomazia. Parola di matrice illuminista, dice dell’eguaglianza con un certo disprezzo che non tiene conto della realtà, della vita e della storia degli uomini e delle donne, della biologia. La fondamentale dicotomia della vita, per Agacinski, resta così quella tra uomo e donna: piuttosto che pretendere che questa differenza non esista o sia trascendente è meglio riconoscerla e puntare sulla parità. Parità, attenzione, e non eguaglianza che è un’altra cosa. Sylviane Agacinski appartiene al mondo del femminismo della differenza, lo rivendica e fa inorridire – immaginiamo – la filosofa rivale.
Parlare di diritti basati sulla differenza invece che sull’uguaglianza significa, per Elisabeth Badinter, ridurre la nazione a un insieme di tribù, che inseguono ciascuno il proprio interesse. E l’interesse generale della nazione, quello universale che riguarda tutti uomini e donne? Più si va avanti più lo scontro diventa profondo. E anche straordinario, senza un pettegolezzo, un insulto, una parola di troppo. Usando il dibattito, i libri, i saggi, gli interventi sulla stampa. Con un protagonismo non formale nel dibattito pubblico.

Diciamolo pure: di fronte alla faticosa presenza, se non all’assenza, delle donne nella vita pubblica italiana, una certa invidia nei confronti delle cugine e dei cugini francesi che possono ogni giorno confrontare le loro idee e confrontarsi su di esse, grazie a due donne che non temono il confronto e lo scontro pubblico, la proviamo.

La badessa di Montecitorio, articolo di Marianna Rizzini

La badessa di Montecitorio

Laura Boldrini castiga tutti. Tra il suo pensiero e il pensiero unico non c’è neanche un apostrofo rosa
di Marianna Rizzini | 21 Luglio 2013 ore 08:00
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La frase è lo specchio del tutto, e da quella tocca cominciare: “Chi svolge ruoli istituzionali non può avere la libertà di dire qualsiasi cosa gli venga in mente. Dev’essere all’altezza di questo ruolo. Se non riesce a trattenersi non è in grado di fare bene il proprio mestiere”. L’ha detto il presidente della Camera Laura Boldrini – deputato di Sel ed ex portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati – all’indirizzo del vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, per via dell’offesa al ministro dell’Immigrazione Cécile Kyenge, definita “orango” nel corso di una kermesse leghista. Ma se si toglie per un attimo dall’orizzonte il caso Kyenge-Calderoli e l’offesa e le dovute scuse tardive, le parole di Boldrini potrebbero attagliarsi perfettamente al caso Boldrini: un presidente della Camera che, una volta eletto a un ruolo “di garanzia”, si prende, come dice Boldrini, “la libertà di dire qualsiasi cosa le venga in mente”, e non solo su temi che a una carica istituzionale può capitare di trattare nelle occasioni ufficiali, e dunque sul sessismo, sul razzismo, sul fascismo “rigurgitante” e su tutte e tre le cose insieme (che sempre si legano nel Boldrini pensiero), ma anche su temi che la “carica istituzionale” tratta sua sponte, con dichiarazioni quotidiane, e dunque sul lavoro (piccole e medie imprese sì, Fiom di Maurizio Landini sì, Fiat di Sergio Marchionne no, al punto da declinare l’invito a visitare uno stabilimento Fiat, anche se per ragioni “istituzionali”, al grido di “non si gioca al ribasso sui diritti dei lavoratori). Boldrini dichiara sullo ius soli (una legge subito), su Barack Obama (lui sì che pensa all’immigrazione come si deve), sulle case da dare “prima ai rom e agli extracomunitari con figli a carico” (al che il cittadino Davide Fabbri, a Milano Marittima, l’ha denunciata presso i carabinieri per essersi “appropriata con abuso d’ufficio di un bene nato dal risparmio dei cittadini italiani tutelato dalla Costituzione”). Dichiara sui sindaci donna alle prese con la ’ndrangheta ma anche con l’onnipresente “sessismo” e sulle spese militari (da tagliare), sulle banche canaglia (come dice Beppe Grillo) e sul Parlamento sacro (contro il Beppe Grillo che tuonava su Montecitorio “tomba maleodorante”, ricevendone in cambio dall’ex comico la definizione di “miracolata di Vendola” che deve “studiare la Costituzione”). Ha detto la sua sulla sparatoria a Palazzo Chigi, Boldrini, scrivendo su Twitter che l’attentatore Luigi Preiti era “disperato” per “la perdita di lavoro”, con la “crisi che trasforma le vittime in carnefici”. E ha detto la sua, in questi giorni, sul pasticciaccio kazaco, ma direttamente dalla prima pagina dell’Unità (titolo: “Compiacenze e omissioni”), e addirittura su Miss Italia (viva la Rai “civile e moderna” che l’ha cancellata). Ed è stata questa la goccia che ha fatto insorgere Fiorello, paladino del concorso di bellezza (“Non ha mai fatto male a nessuno, nelle critiche di Boldrini c’è ipocrisia e snobismo”).
“Ma perché Boldrini non si dimette per andare alla conquista di Sel?”, si è chiesto a un certo punto, sempre su Twitter, lo stralunato gauchiste eretico di Teledurruti Fulvio Abbate, individuando in Boldrini l’alter ego di Nichi Vendola che, in un futuro non così lontano, potrebbe scippare a Vendola lo scettro della sinistra ex bertinottiana. E in effetti non passa giorno che Boldrini non esterni, anche se non alla maniera dei picconatori dei tempi oscuri, sospesi tra Gladio e misteri che tornano, bensì con la gravitas da donna-emblema dell’area “Corpo delle donne” e da presidente della Camera (di garanzia) che, ossimoro, ha un “programma” politico, come ha ricordato Boldrini stessa nell’intervista rilasciata al Fatto il 10 luglio: “Non mi interessa assecondare il pensiero unico”, diceva l’ex commissario Onu, “seguo la mia coscienza e il programma che ho esposto il giorno in cui sono stata eletta alla presidenza della Camera, il mio impegno con gli italiani”. Ma poi tra il suo pensiero e il pensiero unico non c’è neanche l’apostrofo rosa tra le parole “t’amo”, per dirla con Cyrano: più unico di così si muore, tra appelli per i bisognosi, gli oppressi, i dimenticati, i diversi, i diritti negati, i diritti da affermare – sempre e comunque nel solco della più tradizionale correttezza politica – tra eguaglianza, fratellanza e sorellanza.
Ma tutto questo che cosa c’entra con la presidenza della Camera?, si chiedono gli osservatori da testate anche insospettabili, tipo il professor Giovanni Sartori in un editoriale non proprio sfumato sul Corriere della Sera in cui Boldrini (con Kyenge) viene inserita nella categoria dei “raccomandati” con “credenziali irrisorie”: “Molta sicumera, molto presenzialismo”, scrive Sartori, definendo il presidente della Camera una “femminista” con “scarsa correttezza istituzionale e anche presenza nel mestiere che dovrebbe fare”. Boldrini direbbe probabilmente che sono i soliti pensieri sessisti-maschilisti – c’è sempre un maschilista che si nasconde tra le pieghe della realtà come del Web, come si evinceva dall’intervista a Concita De Gregorio su Repubblica, a inizio maggio, intervista regina del trimestre di presidente-militante, con tutta la (condivisibile) riprovazione per le offese becere a sfondo sessuale che le arrivavano dalla teppa internettiana sui social network, ma anche con qualche parola tranchant sul caos della rete da regolamentare – ed ecco che il popolo della rete ha subito gridato alla “censura” (qualcuno proponeva a Boldrini di “andare a lavorare in Corea del nord”, dove “non esistono problemi del genere”, come si leggeva nei commenti censiti, in quei giorni, da Cristina Giudici per Linkiesta). L’interventismo di Boldrini diventa su Twitter materia da facezia: “E’ attesa per i commenti sul calciomercato”, scrive il burlone del Web mentre i Cinque stelle chiedono “chiarezza” su una fantomatica cena dei presidenti delle Camere con Confindustria. Ma siccome Boldrini è colei che ha opposto il gran rifiuto a Sergio Marchionne, seppure non ritenendosi oggetto delle successive parole di Marchionne sulle “autorevoli istituzioni” che considerano “esercizio dei diritti” comportamenti “violenti”, è chiaro che nessuna cena con gli imprenditori potrà mai scalfire la sua santità sindacale e terzomondista di presidente della Camera che dà l’esempio ma senza eccessivi pauperismi e senza che si tolga “decoro” alle istituzioni (così dice la donna che si è decurtata emolumenti, benefit e scorta come “biglietto da visita” di inizio mandato ma che in nessun caso vuole apparire anticasta alla maniera grillina).
Il punto è proprio questo: Boldrini, che a un entusiasta Fabio Fazio (e a D, dov’è apparsa in copertina, e a Sette, e a Concita) ha detto di essersi candidata per “indignazione”, non può apparire anticasta neppure volendo, ché la sua formazione è avvenuta nel cuore delle Marche borghesi, nei pressi di Macerata, tra le buone famiglie dal dialetto addolcito e dall’anelito cosmopolita. Lì crescono, dice un marchigiano, “molti futuri membri della cosiddetta classe diplomatica, persone preparate al mondo, che studiano le lingue, curiose anche per via della personalità non forte dei luoghi d’origine”. Lì, nelle Marche dove Grillo ha sfondato e dove la sempre tormentata alleanza Pd-centro aveva preso piede, lì nelle Marche un po’ “nord-est” e un po’ miniatura della politica nazionale, lì nelle campagne attorno a Matelica, dove Enrico Mattei smise di andare a pesca di trote per muovere i primi passi in conceria, lì Laura Boldrini, alunna in una piccola scuola vicina ai campi e poi in un liceo classico a Jesi, ha cominciato a pensare “al viaggio”, come dice quando si racconta nelle interviste con l’orgoglio dell’amarcord: è stata la vita in provincia che mi ha dato la spinta per partire, è stata l’infanzia ovattata tra padre avvocato severo che amava esprimersi in latino e mamma antiquaria malleabile a nutrire la voglia ribelle di un’avventura on the road da ventenne degli anni Ottanta. I ventenni anni Ottanta che partivano dall’Europa per andare a coltivare riso tra i campesinos venezuelani finivano poi per risalire l’America centrale con il vago mito del “Che” in testa e l’obiettivo di vedere, alla fine di tutto, New York, porta verso il ritorno e la vita adulta. Per Boldrini seguì tutto il resto: un contratto in Rai, l’apprendistato da giornalista, la Fao, il matrimonio, la nascita della figlia Anastasia (oggi ventenne), un divorzio, l’Africa, il sud-est asiatico (per lavoro e per diletto), l’India e la lunga carriera all’Onu tra World Food Programme e rifugiati, con sua figlia che le preparava ogni volta una valigetta di giochi e vestiti per un bimbo di laggiù “da fotografare” per essere sicura di essere stata obbedita dalla mamma. “Sono stata nei teatri di guerra”, tra Iraq, Balcani, Caucaso, Iraq, Pakistan e Afghanistan dilaniato e “di bellezza cinematografica”, dice il presidente della Camera che da giovane donna andava in missione in mezzo a popolazioni diseredate e cronisti di guerra cinici. Uno di loro, Angelo Macchiavello, inviato e poi conduttore tra Studio Aperto e Rete 4, ricorda Boldrini come “una ragazza gentile che arrivava e si rendeva conto della situazione, ma che certo non poteva fare molto. Non per colpa sua, eh, ma dell’Onu e di istituzioni inutili a cui evito di dare i soldi, avendole viste in azione”. Ma se si eccettuano le riserve della stampa al fronte e quelle dell’europarlamentare leghista Mario Borghezio, che durante una puntata della “Zanzara” ha dedicato un’invettiva al neo presidente della Camera in quanto esponente “del fancazzismo buonista internazionale”, Laura Boldrini funzionario Onu piaceva trasversalmente. E fino a quando non ha cominciato a esternare come vice-Vendola (ma da uno scranno “terzo”), piaceva anche agli avversari politici e al centrodestra colto, che vedeva in lei un antidoto alle icone della frivolezza radical chic: “Che brava”, “che bella”, “che autorevole”, “che diversità dalle donne di plastica”, scrivevano commentatori e twittatori di ogni ordine e grado nei giorni concitati del siluramento di Romano Prodi alla presidenza della Repubblica, conquistati dalla serietà accorata della cinquantenne elegante che leggeva i nomi scritti sulle schede con lentezza e cadenza aspirata, con l’aria di un Atlante che porta sulle spalle i problemi della legislatura se non della Terra tutta, e con occhi sempre più dolenti – poi un giorno, qui sul Foglio, Alessandro Giuli li ha paragonati agli “occhi della madre” della “Corazzata Potëmkin”, versione Sergej Ejzenstejn e versione ragionier Fantozzi, trovandoci in fondo anche gli occhi di una “matrigna addolorata” che cammina tra i rovi “dei sette dolori”, ed è stato chiaro che soltanto Fantozzi poteva arrivare dove gli umani non arrivano: a smitizzare il non smitizzabile, con tutto il carico di correttezza politica che si porta dietro.
“Non sono conformista”, dice di sé Laura Boldrini, cosa vera sul piano privato più che sul piano pubblico, visto il pubblico sfoggio di luoghi comuni vetero & no-global ma vista anche la magnifica rispostaccia data a chi, dopo aver visto un servizio su Chi, osava fare battute sul suo compagno, il giornalista Vittorio Longhi, più giovane di dieci anni: e allora?, diceva Boldrini alle amiche e alla stampa in contemporanea, un uomo può farlo, per giunta con ragazze non di dieci, ma di trent’anni più giovane, e io no? Poi però Boldrini raccontava, sempre pubblicamente, senza timore di mostrare umana debolezza (chapeau, in questo caso), che tra i due era Vittorio quello capace di riderci sopra.
“Mio padre voleva che io fossi avvocato e per anni non mi ha perdonato il primo viaggio-fuga in Venezuela”, dice Boldrini ai giornali e agli amici che la vedono comportarsi come una qualsiasi mamma preoccupata per la figlia ventenne a Londra (“forse mio padre non aveva tutti i torti”, aggiunge durante le cene). E però la vera “non conformista” della famiglia non è lei, ma sua zia Dafne, raccontata da Boldrini nell’intervista che, nel 2010, incoronò il futuro presidente della Camera “italiana dell’anno” per Famiglia Cristiana (“Boldrini è un Veltroni o un Jovanotti al cubo, da Che Guevara a Madre Teresa”, dice un folletto maligno del Transatlantico). Ognuno ha la sua “Zia Mame”, l’irresistibile zia socialite del romanzo di Patrick Dennis, che dal proibizionismo agli anni Cinquanta combina guai cavandosela sempre e sperimentando strambe teorie educative sul nipote in un universo di pretendenti e benpensanti. Boldrini aveva appunto zia Dafne, che da giovane aveva fatto la modella e girato il mondo e a quarant’anni aveva cominciato a scrivere romanzi, autocandidandosi pure al premio Nobel (chissà se viene da lì la tendenza di Boldrini a pensarsi in grande, come presidente che “ha un programma” e si sente “casa della buona politica”). Dove c’è un evento simbolo dei diritti e dei beni comuni, Boldrini arriva in pompa magna, che sia il Gay pride, la riunione con la Fiom o la piazza del 25 aprile a Milano (ne fanno le spese le presenze in Aula, ha scritto su Io donna Maria Teresa Meli, retroscenista politica del Corriere, provocando la risposta dettagliata (ma boomerang) dello staff di Boldrini: sorte voleva infatti che il 28 per cento di presenze della neo presidente eguagliasse le percentuali dei predecessori Fini e Casini, considerati ohimè assenteisti.

Poi c’è Laura Boldrini com’era prima di marzo, prima della giornata in cui, come ha raccontato lei stessa in tv al sempre più estasiato Fabio Fazio, Dario Franceschini le sibilò in corridoio che c’era “una bella sorpresa” per lei, e la sorpresa era il suo nome, diventato per un attimo la speranza del Pd di Bersani: mandare in alto la “società civile” per placare gli anticasta entrati in Parlamento e arrivare a un “governo di cambiamento” poi rivelatosi impossibile. Lei, Boldrini, “una specie di Isabella Rossellini con i capelli lunghi”, dice dal Pd un estimatore, quel giorno entrò in una stanza e vide tutti girarsi verso di lei, e lei allora si girò all’indietro, come aspettando di trovare “la persona autorevole” da votare per la presidenza della Camera. Non c’era nessuno, dietro, e Boldrini anche oggi dice che è stato “uno choc”, cosa che piace molto all’area “Corpo delle donne”, conquistata dalla modestia, vera o falsa che sia, e dall’aurea sobrietà. Non c’era nessuno, dietro Boldrini, e da quel giorno la filosofa e deputata pd Michela Marzano, su Repubblica (Boldrini è il presidente perfetto per Rep.) ne tesse le lodi anche in chiave para-semiologica: la tv di Miss Italia non era più “specchio” della società come nei bei tempi andati, ma “proiezione maschile” (Marzano condivide la visione di Boldrini, che non tollera di vedere soltanto il “due per cento” di donne parlanti in tv e trova ovunque tonnellate di “bullismo machista antico di secoli”).
Prima di diventare questa Boldrini, Boldrini favoriva ricongiungimenti familiari: la storia di Murayo, ragazza somala con “due famiglie”, che grazie a Boldrini ha ritrovato il padre africano dopo aver vissuto diciotto anni con un padre e una madre italiani, è raccontata nel libro “Solo le montagne non si incontrano mai”, scritto dal presidente della Camera per Rizzoli con il cuore della mamma che nelle altre bambine vede la sua bambina e presentato dal presidente della Camera a “Chi l’ha visto?” – per raccogliere fondi per i profughi del campo keniota di Dadaab, ha detto, e però il Web impertinente ha subito girato il tutto in: “Ma che fa, Laura Boldrini, pubblicità occulta?”.

Prima di diventare questa Boldrini, Laura Boldrini era l’icona martellante dell’umanitarismo (anche ideologico) che vedeva nell’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni una specie di “mostro” dei respingimenti, ed è ancora visibile tra le righe, quella Boldrini, non appena qualcuno pronunci la parola “clandestino”. Voleva addirittura una “rivoluzione” semantica, Boldrini, lo “sguardo aperto” sul “rifugiato”, e accusava i media di “alimentare la paura”. Lo ripeteva incessantemente, memore della sua esperienza nei campi profughi – ma non sempre trovava un pubblico adatto, e un giorno, a una conferenza targata Unhcr, uno studente fece ridere due file di convenuti al grido di “ao’, me pare Manu Chao”, il cantante che da Barcellona a Genova faceva ballare il popolo no global al ritmo del ritornello “Mano negra, clandestina, africano clandestino… fantasma en la ciudad / Mi vida va prohibida / Dice la autoridad…”.
E’ lì, con il tailleur sempre meno grigio da presidente movimentista della Camera, Laura Boldrini, la deputata di Sel che ha fatto arrabbiare i compagni delle Marche per non essere passata dalle primarie, e poi quelli siciliani per aver optato per un collegio siciliano, causando sgraditi slittamenti all’indietro. E’ lì, ma è come se fosse ancora indietro o già avanti, terzo (o quarto?) uomo del centrosinistra.

http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/03/15/dopo-tre-anni-pi-chiaro-perch-questo-papa-non-piace-a-troppi___1-v-139425-rubriche_c395.htm


http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/03/15/dopo-tre-anni-pi-chiaro-perch-questo-papa-non-piace-a-troppi___1-v-139425-rubriche_c395.htm

http://www.ilfoglio.it/cultura/2016/01/05/come-e-perch-io-e-checco-zalone-abbiamo-dimostrato-che-il-cinema-italiano-nudo-parla-pietro-valsecchi___1-v-136668-rubriche_c104.htm



http://www.ilfoglio.it/cultura/2016/01/05/come-e-perch-io-e-checco-zalone-abbiamo-dimostrato-che-il-cinema-italiano-nudo-parla-pietro-valsecchi___1-v-136668-rubriche_c104.htm

Le università americane pol. corr. schierate contro Trump sono peggio di Trump, articolo di Antonio Gurrado

Le università americane pol. corr. schierate contro Trump sono peggio di Trump

di Antonio Gurrado | 15 Marzo 2016 ore 18:22
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Donald Trump (foto LaPresse)
Ho perso il conto degli Stati in cui si vota oggi o in cui si è già votato per le primarie americane perché m’interessa di più il novero delle università che si schierano contro Donald Trump in nome del multiculturalismo, del femminismo, di tutto il chiacchiericcio progressista e politicamente corretto che serve a farsi passare per colti in società. Mi aspetto faville dalla Western Washington University, dove qualche tempo fa si giunse alla sospensione delle lezioni nel corso della querelle sulla soppressione della mascotte dell’università: Viktor E. Viking, muscoloso pupazzetto biondo dalla mascella volitiva e dal casco cornuto. Come Trump, la mascotte vichinga è eccessivamente bianca, bionda, maschia, aggressiva e dominatrice.

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  Adesso gli studenti della WWU tornano alla carica presentando verbose petizioni in cui richiedono che il campus ammetta di star occupando le terre delle tribù Nooksack e Lummi; che vengano istituiti un Comitato per la Trasformazione Sociale, volto a vigilare su ogni tipo di attività dalle implicazioni potenzialmente discriminatorie, e un Collegio del Potere e della Liberazione, che riceva fondi straordinari per esercitare l’attivismo anticoloniale; che vengano aperti dormitori etnici che in teoria dovrebbero servire a preservare le minoranze ma di fatto segregano gli studenti in base al colore della pelle. Alla prossima protesta studentesca anti-Trump ricordatevi che The Donald è uno solo mentre università del genere sfornano laureati a migliaia. Bisognerebbe fare qualcosa per impedire che un giorno possano diventare presidenti.

E pure una risata ci vuole!!!

La sfida per la salvezza è l'unica cosa eccitante in questa Serie A

di Elpidio Pacifico | 14 Marzo 2016 ore 19:09
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Resto convinto che alla fine in B ci andranno Hellas, Carpi e Frosinone, ma è indubbio che le tragedie di Palermo e Udinese abbiano rimescolato tutto laggiù in fondo. E' qui che ci si eccita, non certo nelle zone alte della classifica, dove tutto è già ampiamente deciso: Juventus prima con un bel distacco (vedrete), Napoli (in leggero ma costante calo) e Roma a giocarsi il secondo e terzo posto. Poi Inter e una tra Fiorentina e Milan. Tutto qua. Interessante? Bello? A voi il giudizio. Alla fine, salvo terremoti imprevedibili, il canovaccio sarà il solito, e gli epici poemi sulla Serie A combattuta andranno a far compagnia alla carta buona per far bruciare la legna nel caminetto. Il prossimo turno però non è male: c'è Roma-Inter (finirà 2-1 con Mancini che sarà contento comunque) e c'è Torino-Juve (1-3). Il Napoli così così col Genoa (2-1), il Milan 0-0 con la Lazio, con Berlusconi che tornerà a minacciare i tifosi di mettere Brocchi in panchina. Dimenticavo la Champions: a Monaco potrebbe finire 2-3.

Il membro della famiglia, articolo di Fabrice Hadjadj

Il membro della famiglia

Il matrimonio esalta e compie la differenza originale e originaria dei sessi. Così si diventa se stessi
di Fabrice Hadjadj | 11 Ottobre 2015 ore 06:18
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Tiziano Vecellio, “Marte, Venere e Amore”
Non c’è solo il sesso, dunque, anche l’ombelico è legato alla sessualità. Il primo segna la differenza sessuale; il secondo la differenza generazionale. Il primo mi rivela come maschio; il secondo come figlio. Ma figlio e figlia ci sono soltanto perché ci sono stati un uomo e una donna. La differenza sessuale genera la differenza generazionale. La differenza dei genitori e dei figli nasce dalla differenza del maschio e della femmina e dalla loro unione. E’ su questa differenza dei sessi che vorrei soffermarmi. Tale differenza costituisce una relazione assolutamente originale e fondatrice. Originale perché originaria (ne deriviamo tutti, come abbiamo appena detto), fondatrice perché fonda l’accoglienza a tutte le altre differenze. Guardando il mio sesso, mi accorgo che sono un uomo, e tuttavia non rappresento tutta l’umanità, perché l’umanità è composta da uomini e da donne. Mi accorgo anche che questo membro, che è al centro di me, sfugge al mio possesso: non solo non lo controllo interamente – non obbedisce alla mia volontà come il mio braccio, per esempio – ma mostra anche che la realizzazione di me stesso non può avvenire se non attraverso e grazie a un altro, l’altro sesso, poi l’altro figlio, il che spezza l’idolo di una concezione egocentrica dell’esistenza. Questa è l’originalità della relazione dei sessi: una relazione in cui l’unione non abolisce la differenza, ma la compie (i muscoli palestrati non bastano: l’uomo non è mai così virile come quando è sposo e padre; e la civetteria nemmeno: la donna non è mai così femminile come quando è madre… e donna). In questa relazione, è attraverso la differenza irriducibile che si diventa se stessi.

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  Questa originalità è spesso velata sia dal fantasma della potenza fallica, sia dal mito della fusione romantica, sia dalla morale della complementarità. Nel primo caso, il rapporto dei sessi viene affermato in termini di dominio e dunque di contraddizione: l’uno arriva a schiacciare l’altro. Nel se- condo caso, viene esaltato in termini di dissoluzione e dunque di confusione: l’uno e l’altro si fondono in un brodo sentimentale. Nel terzo caso, viene rappresentato in termini di complementarità e quindi di totalizzazione: l’uno e l’altro si incastrano senza lasciar più spazio ad alcuna distanza né breccia, e formano un insieme beato e autosufficiente. Tali sono le tre coppie che appaiono proprio quando si riduce la relazione sessuale alla coppia (mentre si presume che il terzo ne scaturisca): macho e casalinga (o Crudelia e Masoch), Tristano e Isotta, incastro tra zipolo e alloggio… O ancora: duello spietato, duo perfetto, affare ben fatto. Ma, come ha ben mostrato Emmanuel Lévinas, la dualità dei sessi non è né contraddizione né fusione né complementarità, è apertura all’altro in quanto altro, in modo tale che la faglia resti aperta, che l’altro non vi sia mai dominato, né assorbito né adattato: “Il carattere patetico dell’amore consiste nella dualità insuperabile degli esseri. E’ una relazione con ciò che si sottrae per sempre. La relazione non neutralizza ipso facto l’alterità, ma la conserva. L’altro in quanto altro non è qui un oggetto che diventa nostro o che finisce per identificarsi con noi; esso, al contrario si ritrae nel suo mistero”.

L’abbraccio ci espone all’incomprensibile. Più io abbraccio l’altro più altro, vale a dire l’altro dell’altro sesso, più viene sottratto – nella sua stessa offerta – alla mia comprensione. Posso penetrare fisicamente una donna, ma la donna nella sua femminilità resta impenetrabile: si ritira in una sorta di “verginità eternamente inviolata”. E si arriva ancora più lontano: l’alterità dell’altro non solo è conservata, magnificata nell’unione sessuale, è anche moltiplicata. Per la sua fecondità naturale, questa unione ne genera un’altra. La differenza sessuale non viene mai superata, se non duplicandosi in qualche modo, compiendosi nell’avvenimento di una seconda differenza abissale: la differenza generazionale. Quella che dà nascita a un figlio.

Al fondamento del mistico

Ecco la conclusione che posso trarre da una semplice meditazione sul mio basso ventre. Per quanto mi guardi l’ombelico o la parti intime, esse, se vi faccio attenzione, mi rimanderanno sempre al di là di me stesso, a prima della mia nascita (perché l’ombelico è la traccia della mia vita intrauterina) e dopo la mia morte (perché queste parti sono genitali e naturalmente volte alla posterità). Il mio ombelico come cicatrice e il mio pene come indice mi manifestano che sono grazie a un altro e per un altro, che posso compiermi solo con l’altro e anche nell’altro – non sviluppandomi ma fruttificando, cioè dando nascita a un altro (figlio) con un’altra (donna).

E’ per questo che finché c’è un uomo solo, non c’è ancora l’uomo. Nel secondo racconto della Creazione, il racconto dell’Eden, Dio dichiara: Non è bene che l’uomo sia solo (Gn 2, 18). Mentre il primo racconto della creazione in sette giorni è scandito da un Dio vide che era cosa buona, qui, Dio dice che non è bene. Adamo sperimenta la sua solitudine, una solitudine, una tristezza che, nel paradiso dell’individuo isolato, è il segno che il paradiso non è nel benessere individuale ma nella comunione con l’altro; una comunione che non è dominio, né fusione, né complementarietà, ma relazione con colui o meglio con colei che resta differente e che moltiplica inesorabilmente la differenza.

Curiosamente, se si passa dall’origine della saggezza biblica all’origine del sapere filosofico, si fa una scoperta analoga. Essa si incontra sia in Platone sia in Aristotele, benché in modi differenti; forse proprio perché Aristotele è fisico e sposato, mentre Platone è dialettico e celibe. D’altronde, si potrebbe rimanere stupiti nel veder citare quest’ultimo, che sembra prendere come punto di partenza amori pederastici, per esempio quello di Socrate e Alcibiade. Se lo si guarda più da vicino, si scopre però che Platone sublima il fondamento sessuale, ma non lo ignora come tale. Il Simposio ne offre la dimostrazione eclatante. Si tratta di una riunione di uomini in cui ciascuno deve fare l’elogio dell’amore, in forma di monologo. Ed ecco che quando viene il turno di Socrate, egli non solo passa al dialogo, ma addirittura al dialogo sessuato, perché riferisce il colloquio che ebbe nella sua giovinezza con Diotima, sacerdotessa di Mantinea. Come se l’accesso alla verità dell’amore e al suo autentico elogio non potesse che ritornare alla differenza sessuale come suo fondamento (questo non vuol dire che esiste solo l’amore tra l’uomo e la donna, esclusivamente – cosa assurda del resto, poiché questa esclusività è in sé stessa naturalmente inclusiva per il figlio che arriva, e – non dimentichiamo l’ombelico! – per i parenti; questo vuol dire soprattutto che quest’amore è il paradigma fisico di ogni amore, anche il più spirituale).

Che cosa insegna Diotima a Socrate? Che l’amore non consiste semplicemente nell’unirsi al bello (come suggerirebbe il pensiero della fusione o della complementarietà), ma nel “partorire nella bellezza”. E, secondo Diotima, dove si trova il modello di quest’amore che si gioca nelle altezze sopracelesti? Nelle nostre mutande. Nella nostra animalità sessuale. “Coloro che sono fecondi nell’anima” hanno  come  modello “coloro  che  sono  fecondi  nel corpo”:

“L’unione dell’uomo e della donna è procreazione; questo è il fatto divino”. Come in Genesi 1, 27 non si tratta solo dell’uomo e della donna, ma del maschio e della femmina. Seguendo l’altezza del Parmenide, Diotima non esita a discendere e a vedere nel grido del cervo in calore, o nel collo gonfio o che tuba del piccione in calore, l’immagine stessa del fervore filosofico o religioso: “Non ti accorgi del tremendo stato di tutti gli animali, terrestri e volatili, quando sentono il desiderio di generare, e come tutti siano presi dal male d’amore, e passionatamente disposti anzitutto a unirsi subito tra loro, e poi a nutrire le loro creature?”. Siamo ben lontani dall’idealismo e dal dualismo attribuiti a Platone nella caverna delle scuole e delle università (troppe cattedre e poca carne, indubbiamente).


Giudaismo e cristianesimo attestano in maniera analoga il fondamento carnale della spiritualità umana e riconoscono nella sessualità, e in ciò che da essa ne consegue, l’immagine di ogni unione mistica: Il mio diletto ha introdotto la mano nella fessura e le mie viscere fremettero per lui. Così canta il Cantico dei Cantici; e quelli che esitano a sapere se si tratti di un poema erotico o di un inno religioso suppongono – con pensiero debole – che le due interpretazioni siano in contrasto. I mistici non possono parlare dell’unione con Dio, o della carità teologale, se non a partire da tre differenze legate alla sessualità: quella dei sessi (uomo / donna), quella delle generazioni (genitori / figli), quella dei fratelli (primogenito / cadetto). Il rapporto con Dio è pertanto nuziale (Esce come uno sposo dalla stanza nuziale – Sal 19, 6), filiale (Padre nostro che sei nei cieli – Mt 6, 9), fraterno (Gesù è primogenito tra molti fratelli – Rm 8, 29). è anche i tre insieme: quel che è al di là della creatura, infatti, non può essere accostato da una sola modalità creata, ma da diverse modalità non compossibili quaggiù (l’amore dell’uomo e della donna evidentemente non è l’amore dei genitori e dei figli, che, a sua volta, non è l’amore dei fratelli tra loro). Queste modalità sono contrastanti in natura, ma presentandosi in maniera successiva, manifestano proprio che c’è di mezzo una modalità soprannaturale.

L’islam dalle Mille e una notte al sesso nero del Califfato, articolo di Luca Gambardella

L’islam dalle Mille e una notte al sesso nero del Califfato

Dov’è finita l’idea musulmana dell’armonia tra corpo, mente e anima? Nello Stato islamico l’eros è diventato un modo per appagare le frustrazioni e, con la violenza, un’arma decisiva di reclutamento e propaganda
di Luca Gambardella | 23 Marzo 2015 ore 13:53
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Jean-Auguste-Dominique Ingres, “La grande odalisca”, 1814
C’era una volta un qadi, un giudice della sharia, che prese in moglie una donna. Quando si trovarono a consumare la prima notte di nozze, il giudice rimase sconcertato dalle urla di piacere della compagna che giaceva con lui. Il qadi non aveva mai sentito nulla di simile. Allora disse alla consorte che avrebbe ripetuto la penetrazione, questa volta senza che lei strillasse. Nell’essere posseduta amorevolmente per una seconda volta, la donna rimase calma, passiva e in silenzio mentre facevano l’amore, senza affrettarsi a mostrare la propria passione folle per il marito. Il giudice allora le disse: ‘Torna all’arte in cui eccellevi, ma con me, in armonia, come un coro che canta all’unisono, salendo per prendere le note alte e scendendo di tonalità per quelle basse. Insieme, con la giusta misura, troveremo il grande piacere’”. (Tratto da “The book of exposition in the science of complete and perfect coition”, di Jalal al din al Suyuti. Traduzione di “An English Bohemian”).
                                                                              ***
“Conosco un giovane e una giovane schiava che si amavano di reciproco amore. Quando qualcuno si trovava alla loro presenza, loro si mettevano a giacere separati da uno di quei grandi cuscini che si collocano sui tappeti per dare appoggio alla schiena dei personaggi importanti. Intanto, le teste dei due si incontravano dietro il cuscino, ed essi si scambiavano dei baci senza essere visti; davano infatti l’impressione d’essersi distesi solo per stanchezza, mentre loro in realtà arrivavano ad appagarsi nell’amore in modo straordinario, fino al punto che il giovane amante ebbe a volte l’ardire di allungarsi un po’ troppo su di lei. Su questo fatto io dico: Tra le meraviglie del tempo, che / sbalordiscono chi le ascolta e chi ne parla, / è la brama della cavalcatura per il cavaliere, / il piegarsi del richiesto al richiedente, / la prepotenza del prigioniero su colui che lo imprigiona, / e l’aggressione dell’ucciso sull’uccisore. / Tra le genti mai non udimmo prima d’ora / che colui in cui si spera si umili a chi in lui spera. / Forse tu vedi qui una spiegazione diversa / del sottomettersi del passivo all’attivo?”. (Tratto da “Il collare della colomba”, di Ibn Hazm, giurista e teologo arabo andaluso dell’XI secolo).
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In Olanda c’era una ragazza di nome Khadija, una studentessa musulmana come tante altre. Negli ultimi tempi aveva confidato alle amiche di trovare sempre più difficile coltivare la sua fede nel paese dove era nata e cresciuta. Fu navigando su internet che trovò le prime informazioni sullo Stato islamico in Siria e in Iraq. Guerriglieri con sguardo sicuro e voce ferma dicevano che volevano creare un Califfato dove la sharia sarebbe stata la sola fonte di diritto riconosciuta e che avrebbero combattuto contro il regime siriano in una guerra voluta da Allah. Nell’autunno del 2013, un’amica di Khadija le comunicò che stava per partire per la Siria perché lì aveva trovato marito. Era un combattente dello Stato islamico che l’aspettava nel nord del paese. Khadija era affascinata dal jihad e da chi lo combatteva. Anzi, voleva combattere lei stessa. Decise allora di seguire l’amica e di salutare per sempre il paese dove era nata. Dalla Turchia passarono il confine ed entrarono in Siria dove ad attendere le due ragazze c’erano altre donne europee che si erano unite allo Stato islamico. Dopo qualche tempo fu presentato a Khadija un uomo, un combattente tunisino. “Aveva dei bellissimi occhi verdi. Mi piacque subito”, aveva detto a un giornalista di al Monitor che l’aveva rintracciata. “E poi ho sempre desiderato vivere sotto la sharia e questo in Europa non è possibile”. Da allora Khadija trascorre le sue giornate “cucinando biscotti per il marito che combatte la guerra santa, chiacchierando con le altre mogli dei guerriglieri e giocando con gli animali” (“Ho cinque pesci, due uccellini e quattro gatti”, dice al giornalista).
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Mayat si è fatta chiamare così, ma non è il suo vero nome. Ha 17 anni. “Mi vergogno così tanto per quello che mi stanno facendo qui. Una parte di me vuole solo morire; l’altra spera invece che qualcuno venga a salvarmi così che possa riabbracciare i miei genitori ancora una volta”. Mayat è una yazida, la minoranza religiosa stanziata da secoli nel nord dell’Iraq. Spiega a un giornalista del Telegraph: “Non separano nemmeno le madri dai bambini. Alcune di noi hanno 13 anni, altre non pronunceranno più una parola d’ora in avanti”. Le donne vengono violentate fino a tre volte al giorno in cima a un palazzo dagli uomini dello Stato islamico. “Ci trattano come schiave, ci percuotono. A volte spero che mi picchino così forte da ammazzarmi. Gli abbiamo chiesto di ucciderci. Ma loro non vogliono, siamo troppo preziose per loro, come un bottino di guerra. Ci dicono che siamo miscredenti, non musulmani, e che siamo di loro proprietà e che per questo potrebbero venderci al mercato come fanno con le capre. Spero che i peshmerga vengano a salvarci. Ma devono fare presto. Il mio corpo è già morto. Ora spero solo di salvare la mia anima”.
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ARTICOLI CORRELATI Altro che islamofobia. Anche Libération scopre il torbido sistema di fianziamenti delle moschee in Francia La miseria sessuale La sottomissione, raccontata con gli occhi di una ragazza yazida La teologia dello stupro di massa “L’islamismo è una metastasi”. Parla Talbi, il riformatore tunisino condannato a morte dai terroristi “L’islam pagherà caro se continuerà ad apparire violento e razzista”. Intervista a Ben Ammar Quando l’islam piaceva all’occidente Requisitoria di un Nobel. Naipaul contro “l’islam che abolisce la storia” Nei quattro racconti, il sesso è protagonista, seppure in un climax decadente che corre dal Medioevo islamico, dall’amor cortese, alla contemporaneità dell’èra del Califfato: dal rapporto sessuale, all’amore, fino alla pornografia. Khadija e Mayat, giovani vergini divenute oggetti da maneggiare e passarsi di mano, oppure compagne di combattenti, o ancora donne-guerriero, vivono in prima linea quello che qualcuno ha definito uno “scontro di religioni”. Eppure c’è ben poco di religioso nei loro racconti. La ragazza yazida fatta prigioniera cita le frasi degli aguzzini: “Siete di nostra proprietà, potremmo vendervi al mercato come facciamo con le capre”. Nell’idea di possesso, Dio resta lontano. Nel tentativo di comprendere il reclutamento delle donne guerriere, nella ricerca di un significato alla violenza sulle giovani “miscredenti”, quasi conforta poter catalogare un fenomeno tanto efferato in categorie già conosciute. Si rispolverano parole senza tempo: i “martiri”, le “crociate”, lo “scontro di civiltà”, o ancora, “di religioni”. E’ esattamente quello che nel disegno mediatico e propagandistico del califfo, Abu Bakr al Baghdadi, l’occidente deve fare: prendere posizione, condannare visceralmente l’abominio di esecuzioni e decapitazioni sovraordinate da Allah. Levata la cortina ideologica tra il Bene e il Male – e non poteva essere altrimenti – il califfo cerca il confronto aperto, quello corpo a corpo combattuto sul terreno tra “saraceni” e “paladini”.

Arie W. Kruglanski, psicologo sociale, docente all’Università del Maryland, ha cercato di spiegare il confronto fra l’occidente e l’estremismo islamico da una prospettiva differente da quella dello scontro confessionale. Secondo Kruglanski, la brutalità dello Stato islamico risponde a due istinti primordiali: l’aggressività e il sesso, ove il secondo diventa diretta emanazione del primo. “La psicologia, e non la teologia – spiega in un articolo pubblicato sul sito Reuters l’ottobre scorso – offre i migliori strumenti per comprendere la radicalizzazione”. Alle origini, l’islam contemplava un rapporto armonioso tra il piacere spirituale e quello carnale, secondo l’idea che entrambi contribuissero alla piena realizzazione dell’individuo. La tesi di Kruglanski è che la radicalizzazione religiosa abbia oggi spezzato questo equilibrio, degradando il sesso a mero riempitivo del vuoto esistenziale dell’individuo. Ciò può avvenire, a maggior ragione, in contesti sociali in continuo mutamento, come quello mediorientale, o dove la coesione sociale viene meno, come nella società postmoderna occidentale.


Come è avvenuta, allora, questa rottura? Il rapporto tra il piacere carnale e quello spirituale è controverso. Nel 1998 lo scrittore norvegese Jostein Gaarder ha scritto un libro intitolato “Vita brevis”. E’ una storia d’amore che nella finzione del romanzo immagina una versione al femminile della vicenda di sant’Agostino e della donna con cui visse per dodici anni e che gli dette il figlio Adeodato. Una storia realmente accaduta e narrata dallo stesso Agostino nelle “Confessioni”. Gaarder ha immaginato una lettera della donna, chiamata Floria dall’autore ma il cui vero nome fu tenuto nascosto nelle “Confessioni”, che racconta l’amore per Agostino fino al momento in cui il suo compagno decide, con il sostegno della madre Monica, di intraprendere la via della castità. Gaarder ha sottolineato il rapporto edipico tra il santo e la madre, ma è un altro l’aspetto che qui ci interessa. Agostino, commentò lo scrittore norvegese intervistato qualche anno fa dal Corriere della Sera, si potrebbe definire oggi “un monomaniaco, un uomo ossessionato dal sesso e che però vuole liberarsene perché ritiene sia un male. Tutto il mondo sensibile, il cibo, i fiori, sono un male per lui, e per questo vuole annullare ogni piacere”. Gaarder aggiunse che “da quel sistema di pensiero (la rigida separazione fra cielo e terra, fra anima e corpo), scaturisce inevitabilmente la condanna della donna, creatura inferiore, ricettacolo del male, colpevole dei peccati dell’uomo”. Il puritanesimo che si scontra con la tentazione. “Il benessere spirituale e quello carnale furono divisi dopo il Grande scisma del 1054”, spiega al Foglio Shaikh Omar Camiletti, scrittore e poeta. Fino ad allora il matrimonio veniva inteso, usando le parole del teologo Paul Evdokimov, come “una vocazione particolare per il raggiungimento della pienezza dell’essere in Dio (theosis)”. Per san Giovanni Crisostomo, poi, “quando il marito e la moglie si uniscono nel matrimonio essi non formano l’immagine di qualcosa di terrestre, ma di Dio stesso”. Fu con la teologia di sant’Agostino, seppure antecedente allo scisma, che si posero i presupposti per una diversa concezione del rapporto carnale tra uomo e donna, secondo il principio del prolis est essentialissimum in matrimonio e del matrimonii finis primarius est procreatio atque educatio prolis.
L’islam restò indifferente a qualunque forma di razionalismo. “Se da allora, nel mondo occidentale, la spiritualità si è distaccata dal carnale, nel mondo islamico il sesso da sempre partecipa alla realizzazione spirituale dell’individuo. Sono un tutt’uno”, dice Camiletti. “Il matrimonio e il sesso sono almeno metà della religione islamica”.

“L’islam suggerisce ai credenti la moderazione, l’armonia e l’equilibrio tra corpo, mente e anima”, spiega Camiletti. “Si basa sul concetto di nafs, l’anima di ciascun individuo, che non deve mai essere smodata. Anche nel sesso, dove tutto è lecito (halal) ma nella misura in cui gli istinti più perversi rimangano sotto controllo”. Il racconto del qadi e della sua sposa è emblematico. E’ tratto da un’opera attribuita al teologo e giurista Jalal al din al Suyuti, nato al Cairo nel 1445. Di educazione sufi, al Suyuti fu un prolifico scrittore; gli si attribuiscono circa 500 opere tra libercoli e opere enciclopediche che spaziavano dalla religione, alla linguistica, dal diritto, al sesso. Tra i suoi testi più importanti e famosi ricorrono diverse opere esegetiche del libro sacro dell’islam. Tra questi, compilò anche alcuni racconti sul sesso. Kitab al Izah fi Ilm al Niqah bil Tamam wa al Kamal (“The book of exposition in the science of complete and perfect coition”) è una raccolta di brevi racconti erotici. La sfrontatezza delle scene, descritte senza alcun tipo di censura, può lasciare perplessi e non mancano connotati particolarmente maschilisti. Basti guardare al sommario: “La vedova e il marito iperdotato”; “La donna che dormiva e che fu montata da un uomo”; “Il giudice e la donna dal coito sommesso”; “Il custode dell’hammam che prestò sua moglie”. Poi una serie di capitoletti più didascalici, “Le cose che le donne dovrebbero avere”, in cui si illustra cosa dovrebbe o non dovrebbe fare la donna per soddisfare il suo compagno; oppure “Le cose che gli uomini maggiormente detestano nelle donne” (un paragrafo è dedicato all’importanza dell’igiene delle parti intime; in un altro ci si raccomanda di “non andare oltre certi limiti con il coito altrimenti potrebbe risentirne la salute”). Eppure Suyuti non era un romanziere, tanto meno la sua intenzione era quella di proporre un’opera didattica. Nell’islam medievale, il sesso era semplicemente uno dei tanti argomenti su cui dissertare. E non stupisca nemmeno che sia un giurista a scrivere dei racconti che potremmo definire “sconci”: come interprete della sharia, Suyuti illustra le regole alla base della relazione tra uomo e Dio, ma anche tra l’uomo e i suoi simili. Non esisteva alcun tabù da sfatare e il sesso rimaneva un semplice aspetto della quotidianità.

https://www.youtube.com/watch?v=Lo18nv4vE3Y


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http://www.ilfoglio.it/articoli/2015/02/03/mattarella-oltre-il-grigio___1-v-125233-rubriche_c110.htm



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http://www.ilfoglio.it/articoli/2015/02/03/come-mattarella-arrivato-al-quirinale-la-vera-storia___1-v-125213-rubriche_c335.htm



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La verità di Lindo Ferretti su profughi, islam politico ed Europa timorosa

La verità di Lindo Ferretti su profughi, islam politico ed Europa timorosa

La libertà e la cattiva stampa. Di che cosa ha parlato davvero l’ex CCCP ad Atreju. “Sui profughi si evidenzi il taciuto: l’islam politico, il terrore imposto, lo stato di timore che ci avvolge”. Schiaffetti al Fatto
di Lindo Giovanni Ferretti | 29 Settembre 2015 ore 16:54
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L'ex cantante dei CCCP, Giovanni Lindo Ferretti
Mi è capitato di incontrare, in questi anni, molte persone, in altri tempi avrei detto troppe, che hanno seguito ed apprezzato la mia storia, in tempi non sospetti, venendo dal mondo della destra politica e sociale. Io credo che l’esperienza umana e la rappresentazione che ne dà la cultura attengano ad un ordine pre politico e post politico e per quanto la politica sia indispensabile alla convivenza, non è sempre stato così e non è detto lo sarà, non credo la racchiuda tantomeno la esaurisca.

Sono stato invitato da Giorgia Meloni, persona che mi ispira simpatia, politico che stimo e non sono molti. Motivo dell’incontro: “Fare Europa. Donne e uomini con una storia da raccontare”. Dieci minuti a ogni invitato. Mi è sembrata una buona occasione per riordinare pensieri ricostruendo il tracciato della mia esperienza pubblica dai CCCP a SAGA, teatro barbarico di uomini cavalli e montagne. Un tempo limitato che obbliga all’essenziale, un contesto ben definito: Terra nostra. Idee per l’Italia, l’Europa, la destra.
Le cose cambiano, questo il senso del mio intervento. Putin e la Russia testimoni involontari chiamati a deporre, in contumacia. Le cose per certi versi restano sempre le stesse ma questo attiene ad un altro ordine di pensiero, forse più affascinante ma astorico, estatico mistico.


ARTICOLI CORRELATI An, i vecchi e la grande bambina Marino, Salvini e Meloni, la banda del “nun se pò più senti’ né vede’” Quegli spazi bianchi della libertà E’ la mia seconda volta ad Atreju, della prima porto indelebile un ricordo: un giovane uomo viene verso di me, massiccio e sorridente, mi abbraccia - non hai idea di quanti postacci in cui ho messo piede per ascoltarti. Grazie per essere venuto una volta a casa mia - e se ne va contento.

Anch’io sono contento del mio giorno ad Atreju, della mia testimonianza, della intervista rilasciata alla loro radio, di chiacchiere serali a ruota libera su Israele e la Chiesa, sorprendenti per l’interesse e l’attenzione dei miei giovani interlocutori verso i nodi sostanziali del nostro tempo.

C’è anche un intermezzo insignificante e diventa la notizia virale, da prima pagina in cronaca locale. Appena sceso dal palco un microfono ed una telecamera esigono risposte, c’entra Salvini, c’entrano i profughi. Due parole a difesa di Salvini non le nego a nessuno e non sono disponibile, non lo sono mai stato, per la compilation dei bravi artisti con il cuore in mano, l’indignazione a comando. Ex meglio gioventù in perenne rimpianto con botulino incorporato.


Cosa penso dei profughi? E’ un dolore immane, non può essere lenito da alcuna parola emotiva. Si può, si deve, evidenziare il taciuto: l’Islam politico, il terrore imposto nel vicino oriente, lo stato di timore che avvolge l’Europa. I profughi ne sono ostaggio e conseguenza. Di questo bisognerebbe discutere per poter operare il prima e meglio possibile. Che il Signore protegge lo straniero e che la carità è pilastro della socialità sta scritto ovunque e sta inciso nel cuore dell’uomo, anche del mio. Di che stiamo parlando? Quello che sta succedendo è per certi versi una invasione, per altri una deportazione di masse umane gettate nella disperazione. Poi restano storie individuali comunque tragiche, a ricordarci che il male, il dolore, sono quota inalienabile dell’umanità, vanno combattuti, contenuti e arginati per quel che si può. “Occorre metabolizzare la tragicità del vivere in dolente saggezza e un uso della forza capace di affrontare la tempesta” è una frase del mio intervento. Credo che la tempesta sia in arrivo ma gli unici che si vedono in giro sono intenti ad allestire un picnic. Quelli rintanati in casa partecipano via web, disquisiscono e pontificano postando la loro sostanziale inconsistenza, beatificati dal virtuale. Connessi al vuoto. Li inghiottirà. Ciao.