La badessa di Montecitorio
Laura Boldrini castiga tutti. Tra il suo pensiero e il pensiero unico non c’è neanche un apostrofo rosa
La frase è lo specchio del tutto, e da quella
tocca cominciare: “Chi svolge ruoli istituzionali non può avere la
libertà di dire qualsiasi cosa gli venga in mente. Dev’essere
all’altezza di questo ruolo. Se non riesce a trattenersi non è in grado
di fare bene il proprio mestiere”. L’ha detto il presidente della Camera
Laura Boldrini – deputato di Sel ed ex portavoce dell’Alto
commissariato Onu per i rifugiati – all’indirizzo del vicepresidente del
Senato Roberto Calderoli, per via dell’offesa al ministro
dell’Immigrazione Cécile Kyenge, definita “orango” nel corso di una
kermesse leghista. Ma se si toglie per un attimo dall’orizzonte il caso
Kyenge-Calderoli e l’offesa e le dovute scuse tardive, le parole di
Boldrini potrebbero attagliarsi perfettamente al caso Boldrini: un
presidente della Camera che, una volta eletto a un ruolo “di garanzia”,
si prende, come dice Boldrini, “la libertà di dire qualsiasi cosa le
venga in mente”, e non solo su temi che a una carica istituzionale può
capitare di trattare nelle occasioni ufficiali, e dunque sul sessismo,
sul razzismo, sul fascismo “rigurgitante” e su tutte e tre le cose
insieme (che sempre si legano nel Boldrini pensiero), ma anche su temi
che la “carica istituzionale” tratta sua sponte, con dichiarazioni
quotidiane, e dunque sul lavoro (piccole e medie imprese sì, Fiom di
Maurizio Landini sì, Fiat di Sergio Marchionne no, al punto da declinare
l’invito a visitare uno stabilimento Fiat, anche se per ragioni
“istituzionali”, al grido di “non si gioca al ribasso sui diritti dei
lavoratori). Boldrini dichiara sullo ius soli (una legge subito), su
Barack Obama (lui sì che pensa all’immigrazione come si deve), sulle
case da dare “prima ai rom e agli extracomunitari con figli a carico”
(al che il cittadino Davide Fabbri, a Milano Marittima, l’ha denunciata
presso i carabinieri per essersi “appropriata con abuso d’ufficio di un
bene nato dal risparmio dei cittadini italiani tutelato dalla
Costituzione”). Dichiara sui sindaci donna alle prese con la ’ndrangheta
ma anche con l’onnipresente “sessismo” e sulle spese militari (da
tagliare), sulle banche canaglia (come dice Beppe Grillo) e sul
Parlamento sacro (contro il Beppe Grillo che tuonava su Montecitorio
“tomba maleodorante”, ricevendone in cambio dall’ex comico la
definizione di “miracolata di Vendola” che deve “studiare la
Costituzione”). Ha detto la sua sulla sparatoria a Palazzo Chigi,
Boldrini, scrivendo su Twitter che l’attentatore Luigi Preiti era
“disperato” per “la perdita di lavoro”, con la “crisi che trasforma le
vittime in carnefici”. E ha detto la sua, in questi giorni, sul
pasticciaccio kazaco, ma direttamente dalla prima pagina dell’Unità
(titolo: “Compiacenze e omissioni”), e addirittura su Miss Italia (viva
la Rai “civile e moderna” che l’ha cancellata). Ed è stata questa la
goccia che ha fatto insorgere Fiorello, paladino del concorso di
bellezza (“Non ha mai fatto male a nessuno, nelle critiche di Boldrini
c’è ipocrisia e snobismo”).
“Ma perché Boldrini non si dimette per andare alla conquista di
Sel?”, si è chiesto a un certo punto, sempre su Twitter, lo stralunato
gauchiste eretico di Teledurruti Fulvio Abbate, individuando in Boldrini
l’alter ego di Nichi Vendola che, in un futuro non così lontano,
potrebbe scippare a Vendola lo scettro della sinistra ex bertinottiana. E
in effetti non passa giorno che Boldrini non esterni, anche se non alla
maniera dei picconatori dei tempi oscuri, sospesi tra Gladio e misteri
che tornano, bensì con la gravitas da donna-emblema dell’area “Corpo
delle donne” e da presidente della Camera (di garanzia) che, ossimoro,
ha un “programma” politico, come ha ricordato Boldrini stessa
nell’intervista rilasciata al Fatto il 10 luglio: “Non mi interessa
assecondare il pensiero unico”, diceva l’ex commissario Onu, “seguo la
mia coscienza e il programma che ho esposto il giorno in cui sono stata
eletta alla presidenza della Camera, il mio impegno con gli italiani”.
Ma poi tra il suo pensiero e il pensiero unico non c’è neanche
l’apostrofo rosa tra le parole “t’amo”, per dirla con Cyrano: più unico
di così si muore, tra appelli per i bisognosi, gli oppressi, i
dimenticati, i diversi, i diritti negati, i diritti da affermare –
sempre e comunque nel solco della più tradizionale correttezza politica –
tra eguaglianza, fratellanza e sorellanza.
Ma tutto questo che cosa c’entra con la presidenza della Camera?, si
chiedono gli osservatori da testate anche insospettabili, tipo il
professor Giovanni Sartori in un editoriale non proprio sfumato sul
Corriere della Sera in cui Boldrini (con Kyenge) viene inserita nella
categoria dei “raccomandati” con “credenziali irrisorie”: “Molta
sicumera, molto presenzialismo”, scrive Sartori, definendo il presidente
della Camera una “femminista” con “scarsa correttezza istituzionale e
anche presenza nel mestiere che dovrebbe fare”. Boldrini direbbe
probabilmente che sono i soliti pensieri sessisti-maschilisti – c’è
sempre un maschilista che si nasconde tra le pieghe della realtà come
del Web, come si evinceva dall’intervista a Concita De Gregorio su
Repubblica, a inizio maggio, intervista regina del trimestre di
presidente-militante, con tutta la (condivisibile) riprovazione per le
offese becere a sfondo sessuale che le arrivavano dalla teppa
internettiana sui social network, ma anche con qualche parola tranchant
sul caos della rete da regolamentare – ed ecco che il popolo della rete
ha subito gridato alla “censura” (qualcuno proponeva a Boldrini di
“andare a lavorare in Corea del nord”, dove “non esistono problemi del
genere”, come si leggeva nei commenti censiti, in quei giorni, da
Cristina Giudici per Linkiesta). L’interventismo di Boldrini diventa su
Twitter materia da facezia: “E’ attesa per i commenti sul
calciomercato”, scrive il burlone del Web mentre i Cinque stelle
chiedono “chiarezza” su una fantomatica cena dei presidenti delle Camere
con Confindustria. Ma siccome Boldrini è colei che ha opposto il gran
rifiuto a Sergio Marchionne, seppure non ritenendosi oggetto delle
successive parole di Marchionne sulle “autorevoli istituzioni” che
considerano “esercizio dei diritti” comportamenti “violenti”, è chiaro
che nessuna cena con gli imprenditori potrà mai scalfire la sua santità
sindacale e terzomondista di presidente della Camera che dà l’esempio ma
senza eccessivi pauperismi e senza che si tolga “decoro” alle
istituzioni (così dice la donna che si è decurtata emolumenti, benefit e
scorta come “biglietto da visita” di inizio mandato ma che in nessun
caso vuole apparire anticasta alla maniera grillina).
Il punto è proprio questo: Boldrini, che a un entusiasta Fabio Fazio
(e a D, dov’è apparsa in copertina, e a Sette, e a Concita) ha detto di
essersi candidata per “indignazione”, non può apparire anticasta neppure
volendo, ché la sua formazione è avvenuta nel cuore delle Marche
borghesi, nei pressi di Macerata, tra le buone famiglie dal dialetto
addolcito e dall’anelito cosmopolita. Lì crescono, dice un marchigiano,
“molti futuri membri della cosiddetta classe diplomatica, persone
preparate al mondo, che studiano le lingue, curiose anche per via della
personalità non forte dei luoghi d’origine”. Lì, nelle Marche dove
Grillo ha sfondato e dove la sempre tormentata alleanza Pd-centro aveva
preso piede, lì nelle Marche un po’ “nord-est” e un po’ miniatura della
politica nazionale, lì nelle campagne attorno a Matelica, dove Enrico
Mattei smise di andare a pesca di trote per muovere i primi passi in
conceria, lì Laura Boldrini, alunna in una piccola scuola vicina ai
campi e poi in un liceo classico a Jesi, ha cominciato a pensare “al
viaggio”, come dice quando si racconta nelle interviste con l’orgoglio
dell’amarcord: è stata la vita in provincia che mi ha dato la spinta per
partire, è stata l’infanzia ovattata tra padre avvocato severo che
amava esprimersi in latino e mamma antiquaria malleabile a nutrire la
voglia ribelle di un’avventura on the road da ventenne degli anni
Ottanta. I ventenni anni Ottanta che partivano dall’Europa per andare a
coltivare riso tra i campesinos venezuelani finivano poi per risalire
l’America centrale con il vago mito del “Che” in testa e l’obiettivo di
vedere, alla fine di tutto, New York, porta verso il ritorno e la vita
adulta. Per Boldrini seguì tutto il resto: un contratto in Rai,
l’apprendistato da giornalista, la Fao, il matrimonio, la nascita della
figlia Anastasia (oggi ventenne), un divorzio, l’Africa, il sud-est
asiatico (per lavoro e per diletto), l’India e la lunga carriera all’Onu
tra World Food Programme e rifugiati, con sua figlia che le preparava
ogni volta una valigetta di giochi e vestiti per un bimbo di laggiù “da
fotografare” per essere sicura di essere stata obbedita dalla mamma.
“Sono stata nei teatri di guerra”, tra Iraq, Balcani, Caucaso, Iraq,
Pakistan e Afghanistan dilaniato e “di bellezza cinematografica”, dice
il presidente della Camera che da giovane donna andava in missione in
mezzo a popolazioni diseredate e cronisti di guerra cinici. Uno di loro,
Angelo Macchiavello, inviato e poi conduttore tra Studio Aperto e Rete
4, ricorda Boldrini come “una ragazza gentile che arrivava e si rendeva
conto della situazione, ma che certo non poteva fare molto. Non per
colpa sua, eh, ma dell’Onu e di istituzioni inutili a cui evito di dare i
soldi, avendole viste in azione”. Ma se si eccettuano le riserve della
stampa al fronte e quelle dell’europarlamentare leghista Mario
Borghezio, che durante una puntata della “Zanzara” ha dedicato
un’invettiva al neo presidente della Camera in quanto esponente “del
fancazzismo buonista internazionale”, Laura Boldrini funzionario Onu
piaceva trasversalmente. E fino a quando non ha cominciato a esternare
come vice-Vendola (ma da uno scranno “terzo”), piaceva anche agli
avversari politici e al centrodestra colto, che vedeva in lei un
antidoto alle icone della frivolezza radical chic: “Che brava”, “che
bella”, “che autorevole”, “che diversità dalle donne di plastica”,
scrivevano commentatori e twittatori di ogni ordine e grado nei giorni
concitati del siluramento di Romano Prodi alla presidenza della
Repubblica, conquistati dalla serietà accorata della cinquantenne
elegante che leggeva i nomi scritti sulle schede con lentezza e cadenza
aspirata, con l’aria di un Atlante che porta sulle spalle i problemi
della legislatura se non della Terra tutta, e con occhi sempre più
dolenti – poi un giorno, qui sul Foglio, Alessandro Giuli li ha
paragonati agli “occhi della madre” della “Corazzata Potëmkin”, versione
Sergej Ejzenstejn e versione ragionier Fantozzi, trovandoci in fondo
anche gli occhi di una “matrigna addolorata” che cammina tra i rovi “dei
sette dolori”, ed è stato chiaro che soltanto Fantozzi poteva arrivare
dove gli umani non arrivano: a smitizzare il non smitizzabile, con tutto
il carico di correttezza politica che si porta dietro.
“Non sono conformista”, dice di sé Laura Boldrini, cosa vera sul
piano privato più che sul piano pubblico, visto il pubblico sfoggio di
luoghi comuni vetero & no-global ma vista anche la magnifica
rispostaccia data a chi, dopo aver visto un servizio su Chi, osava fare
battute sul suo compagno, il giornalista Vittorio Longhi, più giovane di
dieci anni: e allora?, diceva Boldrini alle amiche e alla stampa in
contemporanea, un uomo può farlo, per giunta con ragazze non di dieci,
ma di trent’anni più giovane, e io no? Poi però Boldrini raccontava,
sempre pubblicamente, senza timore di mostrare umana debolezza (chapeau,
in questo caso), che tra i due era Vittorio quello capace di riderci
sopra.
“Mio padre voleva che io fossi avvocato e per anni non mi ha perdonato
il primo viaggio-fuga in Venezuela”, dice Boldrini ai giornali e agli
amici che la vedono comportarsi come una qualsiasi mamma preoccupata per
la figlia ventenne a Londra (“forse mio padre non aveva tutti i torti”,
aggiunge durante le cene). E però la vera “non conformista” della
famiglia non è lei, ma sua zia Dafne, raccontata da Boldrini
nell’intervista che, nel 2010, incoronò il futuro presidente della
Camera “italiana dell’anno” per Famiglia Cristiana (“Boldrini è un
Veltroni o un Jovanotti al cubo, da Che Guevara a Madre Teresa”, dice un
folletto maligno del Transatlantico). Ognuno ha la sua “Zia Mame”,
l’irresistibile zia socialite del romanzo di Patrick Dennis, che dal
proibizionismo agli anni Cinquanta combina guai cavandosela sempre e
sperimentando strambe teorie educative sul nipote in un universo di
pretendenti e benpensanti. Boldrini aveva appunto zia Dafne, che da
giovane aveva fatto la modella e girato il mondo e a quarant’anni aveva
cominciato a scrivere romanzi, autocandidandosi pure al premio Nobel
(chissà se viene da lì la tendenza di Boldrini a pensarsi in grande,
come presidente che “ha un programma” e si sente “casa della buona
politica”). Dove c’è un evento simbolo dei diritti e dei beni comuni,
Boldrini arriva in pompa magna, che sia il Gay pride, la riunione con la
Fiom o la piazza del 25 aprile a Milano (ne fanno le spese le presenze
in Aula, ha scritto su Io donna Maria Teresa Meli, retroscenista
politica del Corriere, provocando la risposta dettagliata (ma boomerang)
dello staff di Boldrini: sorte voleva infatti che il 28 per cento di
presenze della neo presidente eguagliasse le percentuali dei
predecessori Fini e Casini, considerati ohimè assenteisti.
Poi c’è Laura Boldrini com’era prima di marzo, prima della giornata
in cui, come ha raccontato lei stessa in tv al sempre più estasiato
Fabio Fazio, Dario Franceschini le sibilò in corridoio che c’era “una
bella sorpresa” per lei, e la sorpresa era il suo nome, diventato per un
attimo la speranza del Pd di Bersani: mandare in alto la “società
civile” per placare gli anticasta entrati in Parlamento e arrivare a un
“governo di cambiamento” poi rivelatosi impossibile. Lei, Boldrini, “una
specie di Isabella Rossellini con i capelli lunghi”, dice dal Pd un
estimatore, quel giorno entrò in una stanza e vide tutti girarsi verso
di lei, e lei allora si girò all’indietro, come aspettando di trovare
“la persona autorevole” da votare per la presidenza della Camera. Non
c’era nessuno, dietro, e Boldrini anche oggi dice che è stato “uno
choc”, cosa che piace molto all’area “Corpo delle donne”, conquistata
dalla modestia, vera o falsa che sia, e dall’aurea sobrietà. Non c’era
nessuno, dietro Boldrini, e da quel giorno la filosofa e deputata pd
Michela Marzano, su Repubblica (Boldrini è il presidente perfetto per
Rep.) ne tesse le lodi anche in chiave para-semiologica: la tv di Miss
Italia non era più “specchio” della società come nei bei tempi andati,
ma “proiezione maschile” (Marzano condivide la visione di Boldrini, che
non tollera di vedere soltanto il “due per cento” di donne parlanti in
tv e trova ovunque tonnellate di “bullismo machista antico di secoli”).
Prima di diventare questa Boldrini, Boldrini favoriva ricongiungimenti
familiari: la storia di Murayo, ragazza somala con “due famiglie”, che
grazie a Boldrini ha ritrovato il padre africano dopo aver vissuto
diciotto anni con un padre e una madre italiani, è raccontata nel libro
“Solo le montagne non si incontrano mai”, scritto dal presidente della
Camera per Rizzoli con il cuore della mamma che nelle altre bambine vede
la sua bambina e presentato dal presidente della Camera a “Chi l’ha
visto?” – per raccogliere fondi per i profughi del campo keniota di
Dadaab, ha detto, e però il Web impertinente ha subito girato il tutto
in: “Ma che fa, Laura Boldrini, pubblicità occulta?”.
Prima di diventare questa Boldrini, Laura Boldrini era l’icona
martellante dell’umanitarismo (anche ideologico) che vedeva nell’ex
ministro dell’Interno Roberto Maroni una specie di “mostro” dei
respingimenti, ed è ancora visibile tra le righe, quella Boldrini, non
appena qualcuno pronunci la parola “clandestino”. Voleva addirittura una
“rivoluzione” semantica, Boldrini, lo “sguardo aperto” sul “rifugiato”,
e accusava i media di “alimentare la paura”. Lo ripeteva
incessantemente, memore della sua esperienza nei campi profughi – ma non
sempre trovava un pubblico adatto, e un giorno, a una conferenza
targata Unhcr, uno studente fece ridere due file di convenuti al grido
di “ao’, me pare Manu Chao”, il cantante che da Barcellona a Genova
faceva ballare il popolo no global al ritmo del ritornello “Mano negra,
clandestina, africano clandestino… fantasma en la ciudad / Mi vida va
prohibida / Dice la autoridad…”.
E’ lì, con il tailleur sempre meno grigio da presidente movimentista
della Camera, Laura Boldrini, la deputata di Sel che ha fatto arrabbiare
i compagni delle Marche per non essere passata dalle primarie, e poi
quelli siciliani per aver optato per un collegio siciliano, causando
sgraditi slittamenti all’indietro. E’ lì, ma è come se fosse ancora
indietro o già avanti, terzo (o quarto?) uomo del centrosinistra.