La città degli alberi offesi
Andavano
a Cuba. Il Caribe, l’Habana, Trinidad, i Cayos, il sole d’inverno l’incanto le
trasparenze dei mari tropicali le piantagioni di tabacco gli sterminati campi
di canna da zucchero e la vegetazione lussureggiante e le palme e gli alberi di
cocco a non finire senza contare la salsa e le aragoste e il mojto e il cerro e
i mango e chissà che altro più. Revoluçion, fame e povertà giacevano inzeppate
sotto a creme solari e costumi da bagno.
Giunsero
a destinazione, una casa particular dell’Habana, stipate in un pulmino con
altre persone le quali, al contrario di loro, erano cariche di bagaglio. Il
senor era dabbasso ad attenderle e incaricò un chico di portare in casa le
valigie. C’era da confessare che per un dollaro i ragazzi cubani, ma anche gli
anziani, sarebbero stati disposti a smuovere quintali. Questo diede loro,
immediatamente, la misura di come funzionassero le cose in quel paradiso
turistico. La scala da salire era angusta, ripida e composta di tanti gradini.
Arrivarono in cima col fiato corto, ma gli ambienti in cui furono introdotte le
rapì; una fuga di saloni arredati con mobili antichi o appena antiquati,
specchi dorati, consolle e volute e divani e statue e fiori finti e porte a
vetri e finestre spalancate su cortili.
Sul
fondo, un piccolo locale bianco adibito a cucina il cui vano d’accesso era
riparato da un cancelletto in ferro dipinto; incongruente e stonata, una finestra
sgangherata e senza parte del vetro, si stagliava contro il cielo notturno di
una città che, avrebbero scoperto nei giorni seguenti, era di per sé simbolo di
mescolanza di grandeur esasperata e sfacelo nauseante. Simile a come si svelò
ai loro occhi, la padrona e maitresse della casa, tinta e truccatissima e
paludata in vesti variopinte sotto alle quali, si compiacque mostrare loro, si
annidavano bende avvolte su bende a coprire il putridume di carni corrose da
varici. Sulla parete di fronte alla porta d’ingresso spiccava, ritoccata a mano
con colori e inchiostri come usava un tempo, un’enorme foto che la ritraeva nei
giorni di una fioritura quasi impossibile da ricordare perfino a chi,
bellissima, l’aveva goduta.
“Sono
io, la donna della foto”, sospirò la maitresse.
Non
fu chiaro se si vedesse con gli occhi del passato o fosse consapevole degli
anni trascorsi. Se lo era, si aggrappava alla finzione.
Si
acquartierarono due a due nelle stanze messe a disposizione per quelli che a un
turista sembrano pochi dollari a persona, ma che per un cittadino cubano
rappresentano una piccola fortuna, considerando che fino a pochi anni prima lo
stipendio mensile di un ingegnere, usuale pietra di paragone, non superava la
ventina di dollari. - Non ti aspettare niente del genere che potresti trovare
in Italia, si era premurata di dire a Clara un’amica, anzi, vedrai che spesso
il colore delle lenzuola vira al marrone. Portati qualcosa da stendere almeno
sopra al cuscino. - Nel bagaglio figuravano svariati asciugamani di lino
ricamato e dalla sacca tirò fuori il mini-cuscino tenuto sotto i piedi per la
durata del volo e il plaid, leggero, caldo e non ingombrante. Fu contenta di
averli presi perché sapeva le sarebbero tornati utili. Al termine del viaggio
di ritorno la voce dell’hostess pregò i passeggeri di lasciare all’interno del
velivolo i suddetti oggetti. Capì che tutti facevano la stessa cosa.
Le
prime volte fecero la doccia avendo cura di mettere fazzoletti usa e getta
impregnati di disinfettante sotto i piedi nudi e di pulire ogni cosa. I pochi
giorni in cui alloggiarono dovunque, dalle stelle alle stalle, le dissuasero
dall’esercitare tanta pignoleria. Comunque, sopravvissero e di sicuro le cose
nel tempo finiscono col migliorare, almeno per il turista; per il resto, girare
il mondo senza elasticità non ha senso, convenne Clara, i cui modi di viaggiare
erano stati ben diversi. Trovarono lenzuola decenti, stanze pulite e
accoglienza calorosa ovunque.
Al
mattino caddero dal letto incuranti del fuso orario e uscirono alla conquista
di un’automobile da prendere a noleggio; l’Habana sarebbe venuta dopo. La
pestilenza degli scarichi delle mitiche automobili ex-americane, caramelle
ambulanti e sfasciate e ridipinte strato su strato e tenute insieme da una
passione sfrenata per motori e colori, le invase come all’interno di un garage
chiuso e soffocante. Clara, in particolar modo, abituata a vivere in campagna,
camminava coprendosi naso e bocca come meglio poteva. -Peggio, molto peggio dei trattori che
impazzavano sull’isola di Morrho de San Paulo, - le venne in mente, insieme al
pezzo di vita che su quell’isola si era illividito, ma subito ricacciò indietro
la nota di saudade. Avrebbe fumato pochissimo durante il viaggio; il nero
dell’ossido di carbonio bastava e avanzava. Scoprì che l’aria era appestata
dovunque tranne che sui cayos; visualizzò l’interno dei polmoni dei cubani e fu
sicura che la loro capacità respiratoria fosse mutata da tempi più lunghi che
da dove veniva lei.
L’Habana.
Sorriso inquietante di labbra truccate impudentemente spalancate su denti
oscuri e cariati; ridondante puttana che ha vissuto le proprie glorie e si
ostina a presentarsi con l’abito della mistificazione. Simbolo di illusioni
perpetuate oltre il limite dell’umana decenza. Così la definì Clara dopo
qualche giorno trascorso a percorrerne gli angoli - anche quelli più nascosti -
e smarrita cercò di saggiare lo spessore della propria dignità, che le avrebbe
permesso di scivolare via, un giorno, a lato dello sfarzo di una vita vissuta.
Avendo il dono di rendere pensieri e sensazioni in parole, non appena ebbe modo
di starsene in solitudine tirò fuori il taccuino e cominciò a scrivere: una
città sogno-incubo, un ammasso irreale di sfrontati contrasti da attraversare
con animo irresponsabile e cieco e sordo al dolore che la permea. Un animo da
turista ottuso, di quelli che al ritorno a casa si compiacciono di raccontare
che l’hanno vista, hanno visitato la cattedrale, i mercatini, il faro, riempito
la vista col verde degli alberi che, numerosissimi e possenti la ombreggiano e
quasi la velano, a sguardi poco attenti alla realtà delle cose. Alberi
incredibili, liane intrecciate come pensieri nella mente di un pazzo; Habana,
culla di fasti e vite opulente ormai consumate, la cui traccia rimane segnata
sui muri e sulle facciate di case che non hanno un senso. Finzione, apparenza,
follia di volute e colonne e colori impossibili si appaiano a decadenza al
limite della decomposizione. Enorme la piazza da cui tuona la voce del regime.
Rigida, severa e marmorea e incoronata dal volto eternamente giovane dell’eroe
svenduto ai saldi e spedito nel mondo al costo di un dollaro più cinquanta
centesimi di francobollo. Sorriso sfruttato ancora oggi per sedurre l’innocente
ignoranza di un popolo che altro non deve sapere. Fissa e lucente anche di
notte, incombe su tutto l’insegna a caratteri cubitali di Patria o Muerte.
Sappiano, anche i turisti, che a Cuba si vive sul filo del sacrificio di sé. A
Cuba si finge di respirare.
Una mattina
si erano fatte trasportare in taxi nel quartiere delle ambasciate; passavano a
salutare un amico della zia di Milena, trasferito dalla sede del ministero
degli esteri di Roma, ed ebbero modo di percorrere la bellissima strada. Lungo
di essa, annotò Clara, le sedi delle rappresentanze straniere si annidano come
uova di serpe nel verde e nelle tinte forti dei fiori aranciati che spiccano su
rami di alberi maestosi e infingardi; creste di gallo vengono chiamati, e
spuntano e crescono appesi così in alto che sembrano essi stessi denunciare
l’essenza di uno svicolare dall’ombra di un peccato esistenziale: vedere e non
toccare; e si può fingere di non aver commesso reato. Le bouganvillee
stordiscono il cuore con l’intensità del loro violetto.
Le
ragazze camminavano con passo slungato, si giravano e si chiamavano e
scattavano foto una all’altra, una con l’altra, alle facciate delle palazzine,
ai fiori.
“Dai,
Clara, qualcuna a noi tre insieme!” chiamò impaziente Maila – capo coperto da
un panama e sfoggio di un grosso sigaro cohiba -acquistato di straforo al
mercato turistico della città - all’angolo di una bocca che mai riusciva a
chiudere. Clara gliene avrebbe accesi tre insieme pur di farla tacere un
momento.
Si
avvicinò, prese la macchina fotografica in mano, le inquadrò – tre donne a
zonzo, legate da un filo strano, scanzonato, vibrante e drammatico insieme – e
scattò e cercò di cogliere per sé i contorni delle loro emozioni. Rivide Milena
abbracciata all’uomo che aveva amato ed era stata sul punto di sposare. La vita
li aveva divisi e la figlia, giovane bella e orgogliosa e ferita, calpestava
altro suolo. Pretese poi per sé una serie di foto. Sfilò il panama dalla testa
di Maila e se lo calcò sul capo, prese il sigaro dalle labbra della ragazza e
cominciò a sbuffare fumo. Portava occhiali scuri da sole e sembrava una di
loro. Lo spirito del suo lago interiore era inquieto, ma sperava rimanesse
acquattato.
Scossa
dalla necessità di entrare in contatto con le proprie emozioni afferrando
parole che sempre aiutavano a sondarle, la messinscena non la distrasse dal
filo sgranato dei pensieri. Riprese con le osservazioni sulla città, ponendo
nello spazio dell’attesa le altre, sotterranee e viscerali e più insondabili.
In attesa che terminassero la pantomima delle fotografie, sedette sul bordo di
un marciapiedi e continuò: la natura partecipa all’imbellettamento della
maitresse disfatta, di quest’isola femmina che le femmine relega nel ruolo di
cortigiane del piacere vigliacco. Perché soltanto maschi a guadagnarsi il pane,
dollaro su dollaro, assediando il turista in cerca di riparo o cibo? Le
femmine, invece, a mostrarsi davanti agli alberghi, a strisciare nel buio, esca
di carne per squali con un cervello da uomo degradato. Scriveva veloce,
scarabocchiando mezze parole che a fatica sarebbe stata in grado di
interpretare, una volta davanti al computer con l’intento di trascriverle. Ma
non poteva rimandare. Sapeva per esperienza che se non le avesse fissate, le
parole per dire avrebbero rischiato di svanire. Ne avrebbe di certo pescate
altre, ma non quelle.
Le
donne cubane si vendono, scrisse ancora, e, principalmente, si svendono, al
riparo di abitazioni i cui proprietari sono ben felici di spalancare le
squallide porte di queste case di tolleranza del sesso di chi non ha altra
merce di scambio. Giovinezza e corpo contro la speranza di trovare un giorno
riparo su altre sponde. Sponde fantasticate benché a loro modo crudeli e
infide. Sponde sognate, profumo di libertà di costruirsi almeno una parvenza di
futuro. Terre in cui si può aspirare alla vita del pensiero che si srotola in
parola e grido di opposizione. Nella boteguita del medio, a gridare con voce
arrochita la rabbia delle donne cubane, una pasionaria del canto, bella oltre i
confini dell’età. Erano entrate nella boteguita di Hemingway per bere il famoso
moito – perfino lei che era astemia! – e lì si era unita alla voce della
pasionaria che sembrava voler gettare in faccia agli avventori una Paloma a
modo suo. Una paloma con ali che colpivano come schiaffi il cuore di chi sapeva
ascoltare.
Fuori
del locale una donna senza età, organizzata e perciò ex-povera, agghindata con
fiori tra capelli tinti di biondo fieno pettinati a trecce, masticava un grosso
sigaro, con l’aria di star seduta sullo scalino per caso. Appena il passante
sgranando gli occhi ne coglieva l’immagine e si affrettava a dar di mano alla
macchina fotografica, alzava l’indice e perentoria diceva one dollar.
“Caspita,
bel modo di far danaro” constatò Sandra tirando fuori la banconota.
Gli
occhi dello squalo sorrisero riflettendo l’umorismo che scintillava in quelli
della donna, che rimaneva a suo modo indecifrabile. Si esponeva ma non si
denunciava. Esercita la stramba professione nelle vicinanze della cattedrale;
in quei dintorni, tra le bancarelle del mercato di artigianato locale, aleggia
uno spirito di puro divertimento, fissava rapida il momento Clara. E’ un
cerchio assediato dai turisti, e chi si accaparra uno spazio in quella zona può
perfino diventare ricco.
Subì
il fascino della Santera più famosa di Cuba. Negli appunti annotò: passa le
giornate seduta appena a ridosso dei portici, a incantare passanti con
l’imponenza della mole e col nero profondo della pelle che spicca sotto le
vesti bianche. Il vero richiamo viene dagli enormi iris rosso sangue appuntati
sul turbante. Evocatori di riti ancestrali e sapienza iniziatica.
Non
seppe resistere al magnetismo che emanava; accoccolata sulla piccola sedia
offerta ai consultanti si pose in ascolto con cuore aperto. Le prime parole non
la stupirono; fissandola con occhi roteanti e svaniti la donna aveva mormorato “sei
come me, una veggente” e proseguito infilando una banalità dietro l’altra – era
un lavoro turistico che svolgeva nella pubblica piazza - senza impegno. Poi, per
farne dono a Clara, impastò e mescolò sulle labbra sapore di parole vane e
colori e profumi e sostanza dei fiori carnosi i cui nomi andava sciorinando.
Sandra porse tre dollari. La Santera fece intendere che l’offerta doveva essere
a misura di quanto si snodava la cantilena, - che per Clara era stata lunga – “…
coppa d’acqua dove respiri, tuberosa dove cammini, giacinti e garofani negli
anfratti, fiore di giglio dove ti bagni… - aveva cantato investendola con la
grevità sfiancante di ogni fiore. Ma da te va bene… va bene così,” comunicò
attraversandola con lo sguardo.
Lasciarono
l’Habana a bordo di un mezzo a noleggio scelto con pignoleria da Milena,
considerato il programma di attraversare l’isola in lungo e largo. Nonostante
l’auto fosse seminuova, giunsero in dirittura d’arrivo annunciandosi sul filo
di freni che emettevano un rumore di barrito d’elefante addolorato. Non tutte
le strade di Cuba sono come la carretera central anzi, su alcune spuntano
improvvisi e indecenti e all’apparenza insuperabili, sconquassi che le fanno
somigliare a faglie smosse da possenti terremoti, annotò Clara. La figlia si
confermò asso della guida e macinò da sola i tremila chilometri di percorso,
anche nei tratti più impervi.
Soltanto
in un paio d’occasioni chiese che scendessero dall’auto per dirigerla in manovre
di uscita da posizioni pericolose, come quando si erano avventurate su uno
sconquassato ponticello di legno per andare a vedere un punto di spiaggia,
oppure il giorno che imboccarono un sentiero all’interno di una foresta,
seguendo un cartello indicante l’esistenza di un rifugio a cinque chilometri di
distanza, confortate dalla sicurezza con cui un chico interpellato aveva
risposto “sì sì, completo, recto. Bueno!” Completo y bueno un accidenti!
Proseguirono imperterrite per un tratto, ammaliate dalla vegetazione
lussureggiante che sembrava ricoprire a tetto il sentiero; felci enormi come
baobab spuntavano dovunque, chiare e femminee a confronto con quanto altro le
inglobava e circondava. Salite e discese e buche e argilla fangosa, del colore
vischioso del sangue, le avevano fatte sudare sette camicie; benché il loro
senso dell’avventura fosse al culmine, dovettero arrendersi di fronte a un
sentiero che s’inerpicava troppo ripido e fangoso. In sovrappiù, minacciava di
piovere, e decisero che sarebbe stato folle rischiare di far notte in quella
situazione.
Tornate
indietro, pur con qualche vago sospetto, si lasciarono irretire dall’invito di
tre individui che offrivano una casa intera per venti dollari. Risero fino alle
lacrime e scattarono foto alla conca di stagno in cui veniva scaldata l’acqua
raccolta da una cisterna e ancora, quando nude al riparo di un anfratto di
pietra si risciacquavano a vicenda con l’ausilio di una tazza di plastica. Al
di là del pericolo presunto, quello rimaneva il gioco di poche ore. La tensione
si palesò col buio. Fu notte di veglia. Imbacuccate per il freddo insolito e la
mancanza di coperte, inquiete per la situazione nella quale si erano cacciate,
nessuna di loro si sognò di dormire. A turno sorvegliavano ogni rumore e tenevano
d’occhio l’auto. Sandra si sdraiava sul letto con gli occhiali da vista
inforcati sul naso, tirando moccoli e dicendo ià- ce lo infilava sempre questo
ià - ci voglio vedere bbuono anche se per disgrazzia mi addormento!
Non
ci pioveva, la porta della baracca, sgangherata ma dignitosamente dipinta, non
aveva chiusura di sicurezza e dalla tapparella era facilissimo infilare la mano
e sbloccare il chiavistello. Una poltrona a dondolo messa a ridosso della
stessa rappresentava l’unico baluardo da abbattere. Sarebbe stato divertente se
non avessero avuto sentore di bruciato e una sottile paura non le avesse
invase. La mattina seguente la casa fu come circondata, in attesa che uscisse
Sandra – ente pagatore del gruppo! Mentre stavano organizzandosi per rimettere
i bagagli nell’auto Clara, giratasi verso la capobanda - una donna dai tratti
indio, zingareschi quasi - la colse nell’atto di sibilare tra i denti al
ragazzo che le stava accanto:
“Donde
tiene el dinero?”
“Ne
la saqueta” rispondeva quello, che l’aveva osservata la sera innanzi mentre la
costringeva a estrarlo con la scusa di un anticipo per pagare bevande e
aragoste.
Invitate
a fare un giro in barca fino al punto in cui si pescavano le aragoste finsero
di accettare. Caricarono i bagagli, salirono in auto con uno degli uomini e
giunte alla spiaggia lo scaricarono, gli misero dieci dollari in mano – la
moglie aspettava un bambino e aveva detto se è femmina la chiamo Clara - e se
la svignarono. Parlarono e riparlarono di quello scampato pericolo. Ci fu perfino
chi disse loro che le avrebbero buttate in acqua dopo la rapina. In effetti, in
quella specie di zona franca non avevano visto in giro né un turista né un
poliziotto. Siamo state delle pazze, si ripeterono per il resto del viaggio.
A
sera si concessero l’abbraccio dell’atmosfera calda e sicura di un residence di
lusso. Quasi a schermare fuori di lì la miseria di tanta parte di quella terra,
Clara cercava il sapore del benessere e di una vita forse trattenuta per i
capelli. - Mi farò servire un moito e lascerò pigramente cadere a terra gli
abiti impolverati e mi avvolgerò nell’asciugamano e a piedi nudi sorseggiando
la bevanda raggiungerò il bordo della piscina e vuoterò il bicchiere d’un fiato
e scivolerò come una foglia sull’acqua fresca. - Unica figura guizzante al
chiaro di luna, si concesse di godere, libera, dell’immersione notturna;
lasciandosi galleggiare poggiò lo sguardo sulla volta del cielo caraibico e
increspò il labbro in un sorriso bambino scoprendo la meraviglia di Sirio che
si stagliava in pieno fulgore appena al di sotto della falce di Iside. Per la
prima volta nella vita le vedeva così vicine e sfavillanti. Riunite sotto al
portico del cottage, le tre ragazze scaricavano la tensione chiacchierando
fitto agitando braccia e sfiorandosi con le mani. Il tempo loro era più lontano
a venire. Altre notti avrebbero trascorso sotto la madre luna che proteggeva la
prescelta stella.
Notte
fonda a Trinidad. Trinidad… Il suono potente del nome mantiene intatta la forza
evocatrice di atmosfere da favola antiche e inquietanti. Pirateria e saccheggio
e mercificazione di carne umana. A quelle radici succhiò latte tanta bellezza.
Immagini oscure si aprono varchi attraverso i fili incantati della memoria e
bruni e inebrianti e preziosi come chicchi di caffè snodati e sgranati dalla
magia delle invisibili dita del profumo dell’aria che la permea. Merletti e
porcellane e luminarie e illusione di ricchezza che non ha vie di fuga. Ma in
libertà è concesso agli sguardi rubare respiri e caldi e indolenti e intimi all’interno
di spazi e retaggi di opulenze che si offrono al tramonto in guisa di
primedonne in vetrina. Trinidad che si agghinda e si veste di musica e si
regala – oggi - in spettacoli di piazza, Trinidad viva oltre la vergogna di un
tempo che continua a occhieggiare, famelico, dai meandri dei vicoli, Trinidad e
la vuota Chiesa, immacolata nel guscio che abbraccia, a stridente contrasto,
altari lignei e intricati e scuri come la pelle dei nativi, Trinidad e le brune
fanciulle, incoronate e splendenti negli abiti da parata con cui festeggiano il
varco dei quindici anni. Seppero dell’usanza da Margarita, i cui occhi
scintillavano dinanzi ai ritratti della figlia.
“Ma
questo è un abito da sposa! Così giovane!” meravigliò Clara le cui figlie,
sulla trentina, non palesavano alcuna intenzione di maritarsi.
“No!”
aveva risposto ridendo a piena gola la donna, esperta della sorpresa dei
turisti e orgogliosa della splendida adolescente raffigurata in quella gran
quantità di foto.
Ne
mostrò loro tantissime, donia Margarita, alta e bella e rigogliosa padrona
della casa in cui dormirono e del paladar in cui cenarono. Una benestante,
dunque.
“E’
la festa della maggiore età, e alle ragazze si regala un servizio fotografico!”
Investivano una fortuna perché le femmine assaporassero il gusto del sogno di
sentirsi regine per un lungo giorno.
Giorno
di vaghezze spese nel volgere di poche ore, tanta frenesia di comparire e
sfolgorare, simulacri di eterne falene bruciati nell’illusione di essere e non
soltanto di esistere - foto incorniciate a perpetuare l’inganno, batteva senza
pause e interiezioni il cuore di Clara mentre con gli occhi s’incantava a
guardare la ragazza e gli abiti e gli sfondi contro i quali l’avevano
pietrificata. Quella che lei riteneva un’illusione, per le giovani di una
Trinidad fiorente in apparenza, doveva necessariamente rappresentare una realtà
alla quale aggrapparsi per non cominciare a morire a quindici anni. Dietro
l’angolo del finto lusso si snodano strade acciottolate, file di pareti umide e
penzolano lampadine fulminate lasciate appese così ché cambiarle costa caro. Un
dollaro. Si allungano figure di femmine ormai adulte e disincantate che
ingombrano i marciapiedi facendo il verso di strofinarsi le braccia per far
capire che chiedono sapone. Ma c’è anche una salda rete di solidarietà e
dovunque si dividono i turisti in maniera equa. Coscienza, forse, di un uguale
livello di povertà da superare senza fare invidia a nessuno.
E
ancora, correvano i pensieri sganciati e ormai scatenati: illuminata e linda la
piazza centrale di Trinidad e le vie collaterali ristrutturate rilucono nella
notte con i colori pastello sfumati dai riflessi dei lampioni di foggia
antiquata. Trinidad carne e passione frammento sospiro fame cristallo prezioso
nel grembo di una terra povera. Vano curarsi dell’ordinarietà a venire,
dell’ipotesi di un solo viaggio nel corso della vita, magari fino all’Habana a
osannare un dio. Un viaggio, perfino quello, che per molti rimane un sogno.
Quale filtro infernale rende invisibili i treni che attraversano Cuba? Perché
si perpetua l’illusione di una strada ferrata che di reale ha soltanto la
ruggine delle rotaie corrose e abbandonate e sperse nell’infinito di un cielo?
Alla
fine del viaggio calcolarono un percorso di tremila chilometri. Tremila
chilometri per attraversare il cuore di una nazione abitata per la maggior
parte da fantasmi che non sanno di esserlo. Chi sa deve pretendere di
ignorarlo. Tristezza, scrive Clara su un foglio, e ancora: l’aria stessa sembra
filtrata, passata al vaglio del controllo poliziesco. Non l’aria che entra
fisicamente nei polmoni, spessa e nera; con quella il cubano può convivere.
Libero pensiero, sei tu la vittima quotidiana; qui, per le ultimissime
generazioni non esiste nemmeno più il concetto di quest’ inalienabile ricchezza
dell’uomo
Sandra
e Clara si accalorano in quei discorsi e insieme lanciano messaggi alle altre
due giovani, discutendo del dramma che si svolge sotto i loro occhi. Le parole
di Sandra hanno maggiore possibilità di fare breccia, ché pronunciate da una
coetanea sembrano più leggere e si condividono meglio. Alle prese con pensieri
loro, Maila e Milena tendevano a estraniarsi dalla realtà circostante. Ognuno
ha nodi da sciogliere, intricati e dolorosi… A volte il resto sembra rimanere
ostinatamente chiuso fuori, incide Clara nel cuore e osserva senza averne
l’intenzione. Accarezza la figlia con gli occhi; il cuore rimane inquieto. Il
viaggio si rivelava per lei, colmo più di un vaso di Pandora.
Attraversando
le strade di una cittadina dell’interno, un giorno videro gli alunni di una
scolaresca sfilare con appeso al collo il ritratto di un eroe cubano. Da
sventolare sotto agli occhi dei passanti affinché tengano sempre presente che
Cuba ha martiri da vendere, fu l’impressione che scambiarono tra loro.
“Sì,
martiri assetati del sangue di ogni cubano vivente. Lo straniero che paga per
vedere ha il dovere di agghiacciare. Non per i martiri assetati, bensì per la
libertà stessa dei cuori cubani, che giace sepolta sotto montagne di slogan
ottusi e crudeli,” invelenì Milena fissando la scena con una sorta d’orrore,
come svegliatasi d’un tratto dinanzi a un quadro dipinto a forza su mucchi di
macerie svettanti in cima a una città bersagliata, e riappropriandosi della
percezione della solidità della terra che calpestava.
Maila
la prese per mano e le carezzò i capelli. Sapeva che dietro la scorza di donne
forti si celano strati di snervanti insicurezze da superare. In qualche modo
Milena era la più fragile tra loro, introversa e coraggiosa e limpida nei
sentimenti com’era.
“Ragazze,
se continuiamo così sapete che vi dico?” disse con tono da imbonitrice Maila,
per sciogliere quel nodo, “che avremmo fatto meglio a partire per Sharm-el-Sheik!
Non ci possiamo accollare tanto sperdimento in un viaggio solo e poi,
situazioni durissime le hanno vissute tutti i popoli e la storia insegna che
quando arriva il momento giusto, si riscuotono e vanno avanti.”
Girato
il bel panama sulle ventitré cicalò: “ià, faciteme ‘na foto che tengo voglia ‘e
fa’ ‘nu bello sorriso!” Maila, nata a Torino, viveva anche lei in Campania, e
ogni tanto sparava qualche frase in napoletano.
Terminato
il giro dell’isola rientravano a l’Habana e ripartivano l’indomani per Cayo
largo, presunta vera oasi di Cuba. Durante le mattinate trascorse sulle
spiagge, scrive Clara ormai invaghita e rapita da quella necessità, passeggio
lasciandole ad allungare le membra al sole. Io no, ho bisogno di calpestare
qualcosa, di lavarmi di dosso il nerofumo. La bellezza impossibile delle
distese candide di sabbia invita a non voltarsi indietro e mi avventuro oltre
il limite della visibilità. Procedendo verso una laguna, lontano da tutti
incontro un angolo su cui stanno sdraiati al sole gli amanti della natura.
Anch’io trovo offensivo verso la purezza di queste trasparenti acque, coprire
la virgineità di membra create, e le denudo ogni volta che mi immergo sotto il
livello dell’onda.
In
solitudine cammino e scruto lungo il filo della spuma – rigonfia e leggera come
meringa liquefatta – e mi piego e m’inchino alla ricerca di frammenti e piccole
conchas da portarmi dietro fino ai vassoi di casa mia già colmi di mille
scintille di mare. Ci rubo dentro l’odore dell’isola e il cristallo liquido che
si colora dei verdi e dei blu impazziti e mi rubo via l’amore per la vita che
non si placa e si insinua fra le onde e della loro sostanza-che-non-c’è si
appropria mentre si lascia abbindolare e scivola e si mescola e si diluisce e
mai si lascia soffocare…medita fra sé, mentre percorre il tragitto tra una
laguna e l’altra, piccola e inadeguata di fronte a misteri che stordiscono.
Tale è la vastità del tratto di sabbia che mi trovo a calpestare, che vengo
irretita da un senso di sperdimento e dall’illusione di trovarmi nel cuore di
un deserto. La gola riarde dalla sete e sono afferrata dal bisogno d’acqua
fresca sulle labbra e del tocco della
mano di qualcuno e di abbracciare Milena e proteggerla dal mondo. Fiuto il
pericolo in agguato dentro di me e non lo so sfidare. Lancia lo sguardo più
lontano che può, cercando di scorgere il punto da cui è partita e s’affretta a
tornare indietro.
Punta
delle Sirene, casa magnifica di ospiti che non possono intrattenersi con noi.
Turista-uomo-sandwich-coperto-di-dollari ti è permesso entrare sfilare
fotografare bearti la vista e gli istinti rodendo la bellezza straripante
dell’isola. Il cubano trova porte sprangate; militari armati controllano
l’accesso ai cayos, angoli di paradiso sui quali gli occhi dei nativi non hanno
il diritto di posare. L’intento non è soltanto quello di lasciare spazi incontaminati
dalla miseria, ma anche d’impedire scambio di idee; voce di mondo diversità di
opinioni facce di realtà viste anche attraverso occhi stranieri, devono trovare
ostacoli prima di arrivare al cuore del popolo. I pensieri serpeggiano ormai
con rabbia dolorosa dentro le vene di Clara. Si guarda intorno e immagina che molti
cubani benedirebbero lo Speaker’s Corner a Londra, padroni lì, di dire quello
che in patria non osano comunicare nemmeno con gli occhi.
Villaggi
attraversati, favelas fatiscenti, pullulare di creature che occupano strade
assolate, ignare della dimensione del tempo. Clara continua a fermare pensieri:
ripassare nello stesso luogo dopo ore e trovare, fissati nell’aria come foto
passate nell’acido, le medesime figure accosciate in attesa di un passaggio e
sventolanti con mano indolente e rassegnata un dollaro per il favore. Obolo per
la grazia. Non fantasie da cult-movie gli autobus sgangherati tenuti insieme
dalla disperazione e i carretti tirati da cavalli, transitanti sulla carrettera
principal di notte al buio e contromano sulla corsia veloce; né il cosiddetto
portatore di handicap libero di manovrare freneticamente la manovella della
carrozzina per guadagnarsi la via che dall’autostrada lo porterà al sentiero e
fino alla baracca nei campi e al banjo tropical – niente di esotico, - un cesso
al riparo dei campi, né i simulacri di camion - quelli che altrove riempiono
spazi negli impianti di demolizione - pieni qui, di esseri umani pigiati
insieme all’impiedi come asparagi messi a bollire in una pentola, stretti per
non cadere e stremati all’andata e al ritorno dai campi. Le ragazze scattavano
foto su foto, per portare con sé quello che gli occhi vedevano e per non dimenticare
i contorni reali di tanta bellezza.
Aragoste
e pollo e carne di maiale e piatti ricolmi di frutta esotica succosa e
sensuale, per il turista che sventola sfacciatissimi dollari. File da tempo di
guerra di gente che si confonde col nulla delle facciate di spacci di regime
colmi di pane e miseria affogati nell’olio bollente di Unidos Venceremos e Viva
la Revoluçion, per i cubani assediati dall’interno dall’incubo del culto di un
attacco contro il quale si impone loro di non smettere un solo istante di
dimenticare che sono vivi. Anacronistici morti viventi, follia collettiva
coagulata, pasto quotidiano per la voracità di un carisma che delle loro anime
si nutre.
Clara
culla dentro di sé, come riposto in un angolo della sacca rossa, il pensiero di
una donna triste e opaca conosciuta in un albergo di lusso, poche sere prima.
Come ti chiami? domandava schivando l’inciampo delle formalità e dei
convenevoli – roba da paesi ricchi. Seduta davanti alla tazza di caffè confessava
il nome sontuoso di un angelo. Alta, un filo di sorriso l’avrebbe resa bella.
Un lavoro che altrove si definiva brillante. Presa confidenza con la forestiera
sospirava e affermava che le sarebbe piaciuto diventare medico.
Superata
ogni reticenza Clara incalzava: ma allora il regime concede di studiare a patto
che si costituisca un investimento… e tu che per disgrazia hai mostrato talento
per il calcolo scientifico, le corsie e i bisognosi te li sei dovuti
dimenticare…
Pronunciava
la frase a filo di voce, non la caricava della violenza di toni interrogatori,
per non obbligare la donna a rispondere; lasciava la via di fuga della finzione
di non aver udito. Con un giro di pensiero da occidentale, valutava che non si offriva
cultura al popolo e paragonava gli studenti cubani a prigionieri di antiche
tribù cannibali nutriti con i migliori bocconi, al fine di poter con più gusto
essere spolpati, in seguito, di una maggiore quantità di carne.
Da tanti
anni, uno straniero che aveva denaro da spendere e non amava la solitudine
fisica benché la promiscuità lo spaventasse, prendeva la donna triste in
affitto – così definì Clara quella specie d’intesa – e spacciandola per
consorte, grazie alle conoscenze che aveva continuava a condurla con sé nei
tempi delle permanenze sull’isola. Per questo le era permesso entrare e
alloggiare in albergo. Maria de los Angeles, madre di un figlio, sognava per
lui un futuro di libertà e sacrificava a quella lontana ipotesi la dignità che
i maestosi alberi della città tentavano di riparare, verdeggiando sullo sconcio
di certe realtà. Clara si era vergognata di respirare con i polmoni della
turista; aveva sentito la necessità di stringerla a sé e spartire con lei
sapore di lacrime. “No olvidarnos,” aveva pregato Maria de los Angeles
porgendole il proprio indirizzo e-mail - una delle poche privilegiate a
possederne uno. Ma quando Clara aveva provato a scrivere, era tornata indietro
una mail delivery che annunciava: failed.
In
aeroporto, al giovane che controllando il passaporto chiede se Cuba le sia
piaciuta, Clara risponde che sì, è una terra bellissima, tanto verde e tanto
mare un luogo da visitare e da godere e ciao tutto a posto posso andare? Muta
seguita la cantilena: bravi i cubani belli i cubani bella la salsa bello lo
mare bello lo sole belle le strade belle baracche bella la fame bella la vita
bello Fidel e chi lo vede bella casa mia che non vedo l’ora di tornare. Scambio
di finti sorrisi; come ogni viaggiatore, paga la tassa di venticinque dollari
per riscattarsi il diritto alla partenza e scivola rapida oltre la porta che,
varcata in colpevole silenzio, le garantisce un’uscita indisturbata da
Cuba. Paese al cui apice batte un cuore
imbalsamato. Un cuore di Moloch. Un cuore che macina dollari di cui i cubani
non sentiranno mai nemmeno lo sporco odore. Scandisce lentamente e con forza il
pensiero dentro di sé affinché s’imprima nella coscienza; subito dopo ne soffia
la vela.
In
attesa di imbarcarsi sul volo continua a sgrossare l’opera. Lo fa subito, lì e
allora, poiché l’aria di casa contamina l’emozione del dolore: non vaglio e non
indago sottigliezze di segrete lotte di potere politico, ma vedo e comprendo e
dico che se c’è amore non si obbligano i figli a rimanere in casa minacciandoli
di negar loro il rientro, desiderassero osare avventurarsi fuori; non s’impone
la mera sopravvivenza oltre il limite dell’assurdo. Ci si prostituisce
piuttosto. In tali abissi cadi se finisci per amare te stesso sopra ogni altra
cosa; può essere allora che diventi crudele, e seppure vedi la famiglia in
rovina scegli di puntare il dito sempre e comunque contro il male che viene da
fuori - più facile esecrare un nemico piuttosto che sprofondare nella palese
impossibilità di guarire piaghe lasciate infettare e imputridire oltre il
limite del sanabile. I sensi dolenti esternano e riassorbono e depositano in
archivi sospesi quanto va elaborando. Sfinita, scivola su una poltrona con la
mollezza di un pupo cui abbiano tagliato i fili. Leverò la piccola voce che
possiedo per spargere questi semi e fecondare il mio millimetro di terra e
metterò a frutto il talento e solo dagli stolti vorrò essere pagata. Ma in un
mondo troppo vasto perfino gli spazi segreti racchiusi all’interno delle mura
di casa si sperdono oltre oscuri confini, a volte…
Sandra
sproloquiava ancora di serpenti con le orecchie, dicendo di averne visti
spuntare da ogni dove. Capisse chi voleva capire. Maila camminava col braccio
intorno alle spalle di un amico dell’affittuario della donna triste –
rientravano con il loro stesso volo – quasi volesse convincerlo a stipulare una
polizza assicurativa. Quando Clara glielo fece notare, piccato nell’orgoglio
disse che aveva fatto un’osservazione banale. Forte del possesso di una villa
su un’isola bellissima, pensando di irretire era stato circuito. Trascurato per
quindici lunghi giorni il lavoro che svolgeva con profitto e le offriva la
sicurezza di sentirsi indipendente, la ragazza non vedeva l’ora di rientrare
nel ruolo.
Milena
– novella Santera, disegnava schizzi di ipotetici progetti da attuare e
ugualmente rapita, impastava e mescolava fantasmagorie e grovigli di rovine e
colonne e grate e terrazze e portici e pelle scura e sorrisi di denti bianchi e
fianchi ondeggianti di sirene. Maronna… sospirò d’un tratto alla maniera della
madre, navigando tra sogni e polvere di stelle disseminate sulla Via Lattea.
Il
progetto del secolo. Mettere davvero mano a questa città, s’infervorò
d’improvviso scatenando le parole nella mente. L’hanno dichiarata patrimonio
dell’umanità, e allora l’umanità ha il diritto-dovere di aprire qui il più
grande cantiere del mondo! Nessun’altra capitale della Terra potrebbe
costituire sfida più grande. Ve l’immaginate… Nessuna risposta era attesa dal
gridare muto. Fu sazia d’emozione.
C’era
da scatenare fuochi con l’energia che sprizzava da loro. Clara, simile a una
mamma-uccello desiderosa di spalancare le ali per proteggere i piccoli, si
astenne dall’iniziare una filippica su argomenti concreti. Giusto che lei
partisse da lì con uno stato d’animo combattuto. Giusto che le tre giovani
donne, con davanti a sé anni per scontrarsi con il dolore, portassero via, per
la durata di un soffio, il colore del mare senza macchia e del verde degli
alberi millenari e pazienti, offesi sì ma vigili e saggi come maghi in attesa
di vedere la luce forzare la via attraverso intrichi da lungo tempo
impenetrabili. Partivano gravate del peso di tanta bellezza, di un sole che
attraversa rami come a ferire la terra, del frusciare di un vento – unico dio
libero di trasportare pensieri - e dello stordire di una musica sempre uguale
sempre quella.
Le
proprie sfide lanciate e vissute, Clara sa che su quell’onda figli e figlie
della Terra solleveranno il mondo. Prende la figlia sottobraccio e senza
intenzione di urtarla con le parole, voltandosi indietro a lanciare una delle
sue impossibili preghiere alla madonna di tutti i cieli mormora:
“Fa che
il turismo a Cuba non abbia a essere la causa della perpetuazione della morte
civile dei cubani.”
Emozioni da un viaggio a Cuba
Autore:
Laura Onofri