giovedì 23 aprile 2015

In risposta a un commento sulla comparazione situazione Italiani nel dopoguerra con immigrazione attuale in Italia.

Ciò che Lei dice è interpetrabile a doppio senso. Anche perché proprio così, "eravamo noi" e non ricordo che da qualche parte sia arrivata una salvazione speciale. Era comunque un morire e solo chi si rimboccava le maniche davvero, sopravviveva nell'ambito di una vita seppur di stenti. Stiamo vivendo ben altri scenari, e il passato non è comunque esattamente paragonabile a mio avviso, agli stravolgimenti epocali in corso. Con tutta la pena che oggi siamo costretti a portarci dentro. Però aggiungo anche, che dal mio canto ho dolore anche per una figlia che ben adulta, laureata, costretta come moltissimi altri a farsi sfacciatamente sfruttare per anni e anni, SENZA TUTELE, è oggi costretta a programmare una fuga in altro Paese, dove il marito è già andato mesi addietro - stessa situazione di non occupato, con curriculum eccellente - Paese che in breve gli ha permesso di organizzare la loro vita e quella di una creatura che, finalmente, in situazione di futuro sperabile, si è decisa a manifestarsi. Fossero stati immigrati in terra nostra, e meno sfortunati di altri, avrebbero magari avuto di che campare qui senza neanche sprecarsi a cercare/trovare lavoro, tanto paghiamo noi. Vivere in Italia, per ormai troppi Italiani, è diventato insostenibile. Nonostante i salassi di cui siamo vittime, non ci torna indietro che fumo. Per il resto, fin troppo se ne disperde pro domo di chi porta denaro sporco in tasche malavitose. E' una situazione inaccettabile, da qualunque punto di vista la si voglia osservare. E come ebbi a rispondere a una cognata che mi sbeffeggiava per le attenzioni che riservavo alla mia prima gravidanza: ciascuno vive la propria. Questa è la mia, e la difendo. Poiché perderla sarebbe come veder implodere l'universo intero.

lunedì 13 aprile 2015

dal sito malditotango.com

Troppo bello!


Si crede che il secondo passo della salida basica sia quello al costado.
E invece il secondo passo è’ imparare a dire di no.
Il primo? quererse mucho; il secondo, saper dire di no.
Senza pietà.
E d’altra parte mi domando cosa sia la pietà.
Un bagaglio pesante, non solo per chi la prova ma anche per chi la suscita.
A chi serve la pietà? infondo è solo la paura di scontare un infame destino per qualche avversa congiuntura che ci risveglia sentimenti di pietà e solo perchè sappiamo che potrebbe accadere anche a noi.
Perciò la pietà viene dalla paura, ne è il contorno.
I pazzi e i bambini non hanno pietà e nemmeno i tangueros debbono averne.
Dimenticarsi di avere paura.
Essere antidemocratici è essenziale nel tango.  
Essere coscienti della propria superiorità e annoiarsi mortalmente a fingere che non sia così è un diritto che possiamo esercitare solo alla milonga.   
E se d'altra parte se ci viene chiesto, la pietà non la vuole nessuno. 
E così ti accorgi che non gliene frega niente a nessuno se ti stai passando tutta la serata seduta. 
Ed è giusto che sia così. 
E’ così che matura una tanguera. 
E impari in fretta che più ti disperi più diminuiscono le probabilità che un uomo decente ti inviti.   
Nessuno ti invita. 
Comincia a leggertisi in faccia che ti stai deprimendo. 
Che la prendi sul personale, poverina. 
Ti si intorpidiscono le gambe. 
Le facce cominciano ad esserti note, chi con chi, quelle che il vestito, quelle che il culo fasciato. 
Riprenditiiiiii. 
Non è nulla di personale. 
Non hai l'attitudine giusta. 
Stai aspettando, poverina, che ti invitino, mentre sei tu che devi scegliere. 
Devi tagliartela a fette con una lama affilata la vita.  
E quando ti lasci confondere dalla ronda, quando nemmeno tu hai capito bene in quale abbraccio vorresti perderti, succede che non succede nulla. 
Tizio ha due spalle quadrate e un collo delicato, un neo sulla nuca... però non sta sulla musica, Caio baila divino però ha il gel che luccica in testa e delle scarpe orrende.
Sta per terminare la tanda e tu ancora non hai puntato.  
Termina la tanda e sta per finire anche la cortina e tu ancora vagabondi con lo sguardo a destra e sinistra come una tonta. 
Nooooooo. Asì no va. 
Così non va mi sussurra Carlito con la sua voce bassa. 
Te la stai trangugiando con un cucchiaio da bebè la notte, querida, se te escapa todo!
Mi ricompongo. 
Pronta. Lucida. Decisa. 
Beccato. 
Mi cabecea il miglior ballerino della pista. 
Non mi muovo finché lui non arriva a metà pista. 
Solo allora appoggio il ventaglio, mi alzo e aspetto che lui venga verso il mio tavolo. 
E quando mi è vicino, esco in pista. 
Prendo posizione davanti a lui e sistemo il mio braccio sinistro sulla sua schiena, lo accomodo, cerco di sentire i muscoli della colonna, sotto la camicia e lì le mie dita lo sfiorano. 
Mi offre la sua mano sinistra. 
Ed io appoggio sulla sua, la mia mano. 
Voluta, desiderata, cercata. 
Lui preme sulla mia mano e risponde la mia gamba accarezzando con il piede il pavimento in un passo atras. 
Chiudo gli occhi. 
A volte commettono l'impudenza di invitarti senza essere stati invitati. 
Ti raggiungono al tavolo invece di cabecearti. 
Dimostrano di non aver capito che un regalo è un regalo ma una conquista è una conquista. 
Tutto sta ad imparare a dire di no. 
No, Grazie. Me importa un carajo de tu sufrimiento. 
Cada uno se quede con lo suyo. 
Es mas. 
Te estoy ayudando, che. 
Ganatela la pista. 

http://www.malditotango.com/blog/il-secondo-passo-della-salida-basica-imparare-a-dire-di-no

Teatro. Greco. Tragico.

E i funerali di Stato per i morti suicidi, per i morti di fame, per i morti a causa della morte della voglia di vivere in un Paese come quello che l'Italia è stata fatta diventare? Il poveretto, contro il quale la stampa infilza parole subliminali, è il misero prodotto di questa ignobile situazione.

http://www.ilmessaggero.it/…/strage_…/notizie/1290180.shtml…

Generato su Facebook: dove sta la differenza? La veda chi la vuole vedere.







Ciao D...a Credo che fin dall'inizio si sia creata una forma di screzio sotterraneo. Non sono comunista e dunque, per F...a tutto ciò che non ricade in quell'ottica, diventa fascista. Non sono razzista, ma ogni forma di ragionamento scevro da buonismi distruttivi, diventa razzismo. Gli insulti gratuiti e di parte sono un corollario, spesso quotidiano, dei suoi post. Le sue sollecitazioni a mille a entrare nelle pagine del quotidiano online (gratuite!!!) sono una serrata operazione di marketing poiché, come lei stessa mi disse, guadagna col sistema del pay-for-click, tra l'altro. In quest'ottica rientrava anche l'invito, su Facebook, a inviare alla redazione, via email, recensioni da pubblicare sul quotidiano.L'ho fatto non mi ha mai nemmeno risposto. L'ho informata di essere una scrittrice, si è fatta inviare il testo dicendo che lo avrebbe recensito lei, ma evidentemente non l'ha digerito. Alcuni commenti postati ad articoli di suoi collaboratori, nonostante le mie rivendicazioni di libertà di pensiero, non sono stati pubblicati perché... non in linea...? Ero divenuta un'indebita ingerenza nel suo feudo :=)) Per la deflagrazione a causa della quale mi ha detto che mi cancellava, ti copio. Non si è mai degnata di leggere il post di cui ho messo il link, al mio blog anzi, lamentava che anche i miei commenti erano troppo lunghi e quindi, chissà,... fastidiosi. Ecco a te:
Risposta dopo la condivisione di un link con F...a: "Il tuo razzismo sfiora la paranoia. Finirò per cancellarti dalle amicizie. Mi hai rotto con queste oscene segnalazioni. Tu e quella merda di giornale che citi."
Mia risposta: "Io non sono razzista. Questo è il vostro slogan preferito, per quanto concerne la Questione Immigrazione Clandestina. Io sono ITALIANA e pretendo rispetto per gli esseri umani, e questo immondo TRAFFICO è ributtante. Onestà: aiutarli, veramente, a casa loro. Trovando vere, costruttive vie di dialogo. Finendola di tirare il sasso della vendita di armi per poi nascondere la mano... per dirne una. Ma qui, finalmente viene fuori il puro spirito del "Niet". Non siete mentalmente in grado di accettare il confronto, il non-consenso, figuriamoci il dissenso. Per voi, basta la gommapane e tutto, nella vostra forma di coscienza, si rimette al suo posto. Il contrario, è speranza di Democrazia. La vostra è Demo. Senza nemmeno Krazia.

Ps: io non ci mangio, con la "merda" dei giornali che cito. Sicuramente, loro sì, che avranno tutti messo in atto, come d'uso, il meccanismo del "pay-for-click". Ps2: bannatemi, se volete. Non mi potrete comunque impedire di esprimere il mio pensiero.

Grazie per l'eventuale attenzione."
http://vialemanidalpaeseitalia.blogspot.it/…/siamo-al-pomer…

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/grecia-italia-unora-e-mezza-ecco-nuova-rotta-veloce-dei-1115456.html


domenica 12 aprile 2015

La città degli alberi offesi Premiata al concorso letterario indetto in occasione della messa in circolazione del modello Porsche 911





La città degli alberi offesi

Andavano a Cuba. Il Caribe, l’Habana, Trinidad, i Cayos, il sole d’inverno l’incanto le trasparenze dei mari tropicali le piantagioni di tabacco gli sterminati campi di canna da zucchero e la vegetazione lussureggiante e le palme e gli alberi di cocco a non finire senza contare la salsa e le aragoste e il mojto e il cerro e i mango e chissà che altro più. Revoluçion, fame e povertà giacevano inzeppate sotto a creme solari e costumi da bagno.
Giunsero a destinazione, una casa particular dell’Habana, stipate in un pulmino con altre persone le quali, al contrario di loro, erano cariche di bagaglio. Il senor era dabbasso ad attenderle e incaricò un chico di portare in casa le valigie. C’era da confessare che per un dollaro i ragazzi cubani, ma anche gli anziani, sarebbero stati disposti a smuovere quintali. Questo diede loro, immediatamente, la misura di come funzionassero le cose in quel paradiso turistico. La scala da salire era angusta, ripida e composta di tanti gradini. Arrivarono in cima col fiato corto, ma gli ambienti in cui furono introdotte le rapì; una fuga di saloni arredati con mobili antichi o appena antiquati, specchi dorati, consolle e volute e divani e statue e fiori finti e porte a vetri e finestre spalancate su cortili.
Sul fondo, un piccolo locale bianco adibito a cucina il cui vano d’accesso era riparato da un cancelletto in ferro dipinto; incongruente e stonata, una finestra sgangherata e senza parte del vetro, si stagliava contro il cielo notturno di una città che, avrebbero scoperto nei giorni seguenti, era di per sé simbolo di mescolanza di grandeur esasperata e sfacelo nauseante. Simile a come si svelò ai loro occhi, la padrona e maitresse della casa, tinta e truccatissima e paludata in vesti variopinte sotto alle quali, si compiacque mostrare loro, si annidavano bende avvolte su bende a coprire il putridume di carni corrose da varici. Sulla parete di fronte alla porta d’ingresso spiccava, ritoccata a mano con colori e inchiostri come usava un tempo, un’enorme foto che la ritraeva nei giorni di una fioritura quasi impossibile da ricordare perfino a chi, bellissima, l’aveva goduta.
“Sono io, la donna della foto”, sospirò la maitresse.
Non fu chiaro se si vedesse con gli occhi del passato o fosse consapevole degli anni trascorsi. Se lo era, si aggrappava alla finzione.
Si acquartierarono due a due nelle stanze messe a disposizione per quelli che a un turista sembrano pochi dollari a persona, ma che per un cittadino cubano rappresentano una piccola fortuna, considerando che fino a pochi anni prima lo stipendio mensile di un ingegnere, usuale pietra di paragone, non superava la ventina di dollari. - Non ti aspettare niente del genere che potresti trovare in Italia, si era premurata di dire a Clara un’amica, anzi, vedrai che spesso il colore delle lenzuola vira al marrone. Portati qualcosa da stendere almeno sopra al cuscino. - Nel bagaglio figuravano svariati asciugamani di lino ricamato e dalla sacca tirò fuori il mini-cuscino tenuto sotto i piedi per la durata del volo e il plaid, leggero, caldo e non ingombrante. Fu contenta di averli presi perché sapeva le sarebbero tornati utili. Al termine del viaggio di ritorno la voce dell’hostess pregò i passeggeri di lasciare all’interno del velivolo i suddetti oggetti. Capì che tutti facevano la stessa cosa.
Le prime volte fecero la doccia avendo cura di mettere fazzoletti usa e getta impregnati di disinfettante sotto i piedi nudi e di pulire ogni cosa. I pochi giorni in cui alloggiarono dovunque, dalle stelle alle stalle, le dissuasero dall’esercitare tanta pignoleria. Comunque, sopravvissero e di sicuro le cose nel tempo finiscono col migliorare, almeno per il turista; per il resto, girare il mondo senza elasticità non ha senso, convenne Clara, i cui modi di viaggiare erano stati ben diversi. Trovarono lenzuola decenti, stanze pulite e accoglienza calorosa ovunque.
Al mattino caddero dal letto incuranti del fuso orario e uscirono alla conquista di un’automobile da prendere a noleggio; l’Habana sarebbe venuta dopo. La pestilenza degli scarichi delle mitiche automobili ex-americane, caramelle ambulanti e sfasciate e ridipinte strato su strato e tenute insieme da una passione sfrenata per motori e colori, le invase come all’interno di un garage chiuso e soffocante. Clara, in particolar modo, abituata a vivere in campagna, camminava coprendosi naso e bocca come meglio poteva.  -Peggio, molto peggio dei trattori che impazzavano sull’isola di Morrho de San Paulo, - le venne in mente, insieme al pezzo di vita che su quell’isola si era illividito, ma subito ricacciò indietro la nota di saudade. Avrebbe fumato pochissimo durante il viaggio; il nero dell’ossido di carbonio bastava e avanzava. Scoprì che l’aria era appestata dovunque tranne che sui cayos; visualizzò l’interno dei polmoni dei cubani e fu sicura che la loro capacità respiratoria fosse mutata da tempi più lunghi che da dove veniva lei.
L’Habana. Sorriso inquietante di labbra truccate impudentemente spalancate su denti oscuri e cariati; ridondante puttana che ha vissuto le proprie glorie e si ostina a presentarsi con l’abito della mistificazione. Simbolo di illusioni perpetuate oltre il limite dell’umana decenza. Così la definì Clara dopo qualche giorno trascorso a percorrerne gli angoli - anche quelli più nascosti - e smarrita cercò di saggiare lo spessore della propria dignità, che le avrebbe permesso di scivolare via, un giorno, a lato dello sfarzo di una vita vissuta. Avendo il dono di rendere pensieri e sensazioni in parole, non appena ebbe modo di starsene in solitudine tirò fuori il taccuino e cominciò a scrivere: una città sogno-incubo, un ammasso irreale di sfrontati contrasti da attraversare con animo irresponsabile e cieco e sordo al dolore che la permea. Un animo da turista ottuso, di quelli che al ritorno a casa si compiacciono di raccontare che l’hanno vista, hanno visitato la cattedrale, i mercatini, il faro, riempito la vista col verde degli alberi che, numerosissimi e possenti la ombreggiano e quasi la velano, a sguardi poco attenti alla realtà delle cose. Alberi incredibili, liane intrecciate come pensieri nella mente di un pazzo; Habana, culla di fasti e vite opulente ormai consumate, la cui traccia rimane segnata sui muri e sulle facciate di case che non hanno un senso. Finzione, apparenza, follia di volute e colonne e colori impossibili si appaiano a decadenza al limite della decomposizione. Enorme la piazza da cui tuona la voce del regime. Rigida, severa e marmorea e incoronata dal volto eternamente giovane dell’eroe svenduto ai saldi e spedito nel mondo al costo di un dollaro più cinquanta centesimi di francobollo. Sorriso sfruttato ancora oggi per sedurre l’innocente ignoranza di un popolo che altro non deve sapere. Fissa e lucente anche di notte, incombe su tutto l’insegna a caratteri cubitali di Patria o Muerte. Sappiano, anche i turisti, che a Cuba si vive sul filo del sacrificio di sé. A Cuba si finge di respirare.
Una mattina si erano fatte trasportare in taxi nel quartiere delle ambasciate; passavano a salutare un amico della zia di Milena, trasferito dalla sede del ministero degli esteri di Roma, ed ebbero modo di percorrere la bellissima strada. Lungo di essa, annotò Clara, le sedi delle rappresentanze straniere si annidano come uova di serpe nel verde e nelle tinte forti dei fiori aranciati che spiccano su rami di alberi maestosi e infingardi; creste di gallo vengono chiamati, e spuntano e crescono appesi così in alto che sembrano essi stessi denunciare l’essenza di uno svicolare dall’ombra di un peccato esistenziale: vedere e non toccare; e si può fingere di non aver commesso reato. Le bouganvillee stordiscono il cuore con l’intensità del loro violetto.
Le ragazze camminavano con passo slungato, si giravano e si chiamavano e scattavano foto una all’altra, una con l’altra, alle facciate delle palazzine, ai fiori.
“Dai, Clara, qualcuna a noi tre insieme!” chiamò impaziente Maila – capo coperto da un panama e sfoggio di un grosso sigaro cohiba -acquistato di straforo al mercato turistico della città - all’angolo di una bocca che mai riusciva a chiudere. Clara gliene avrebbe accesi tre insieme pur di farla tacere un momento.
Si avvicinò, prese la macchina fotografica in mano, le inquadrò – tre donne a zonzo, legate da un filo strano, scanzonato, vibrante e drammatico insieme – e scattò e cercò di cogliere per sé i contorni delle loro emozioni. Rivide Milena abbracciata all’uomo che aveva amato ed era stata sul punto di sposare. La vita li aveva divisi e la figlia, giovane bella e orgogliosa e ferita, calpestava altro suolo. Pretese poi per sé una serie di foto. Sfilò il panama dalla testa di Maila e se lo calcò sul capo, prese il sigaro dalle labbra della ragazza e cominciò a sbuffare fumo. Portava occhiali scuri da sole e sembrava una di loro. Lo spirito del suo lago interiore era inquieto, ma sperava rimanesse acquattato.
Scossa dalla necessità di entrare in contatto con le proprie emozioni afferrando parole che sempre aiutavano a sondarle, la messinscena non la distrasse dal filo sgranato dei pensieri. Riprese con le osservazioni sulla città, ponendo nello spazio dell’attesa le altre, sotterranee e viscerali e più insondabili. In attesa che terminassero la pantomima delle fotografie, sedette sul bordo di un marciapiedi e continuò: la natura partecipa all’imbellettamento della maitresse disfatta, di quest’isola femmina che le femmine relega nel ruolo di cortigiane del piacere vigliacco. Perché soltanto maschi a guadagnarsi il pane, dollaro su dollaro, assediando il turista in cerca di riparo o cibo? Le femmine, invece, a mostrarsi davanti agli alberghi, a strisciare nel buio, esca di carne per squali con un cervello da uomo degradato. Scriveva veloce, scarabocchiando mezze parole che a fatica sarebbe stata in grado di interpretare, una volta davanti al computer con l’intento di trascriverle. Ma non poteva rimandare. Sapeva per esperienza che se non le avesse fissate, le parole per dire avrebbero rischiato di svanire. Ne avrebbe di certo pescate altre, ma non quelle.
Le donne cubane si vendono, scrisse ancora, e, principalmente, si svendono, al riparo di abitazioni i cui proprietari sono ben felici di spalancare le squallide porte di queste case di tolleranza del sesso di chi non ha altra merce di scambio. Giovinezza e corpo contro la speranza di trovare un giorno riparo su altre sponde. Sponde fantasticate benché a loro modo crudeli e infide. Sponde sognate, profumo di libertà di costruirsi almeno una parvenza di futuro. Terre in cui si può aspirare alla vita del pensiero che si srotola in parola e grido di opposizione. Nella boteguita del medio, a gridare con voce arrochita la rabbia delle donne cubane, una pasionaria del canto, bella oltre i confini dell’età. Erano entrate nella boteguita di Hemingway per bere il famoso moito – perfino lei che era astemia! – e lì si era unita alla voce della pasionaria che sembrava voler gettare in faccia agli avventori una Paloma a modo suo. Una paloma con ali che colpivano come schiaffi il cuore di chi sapeva ascoltare.
Fuori del locale una donna senza età, organizzata e perciò ex-povera, agghindata con fiori tra capelli tinti di biondo fieno pettinati a trecce, masticava un grosso sigaro, con l’aria di star seduta sullo scalino per caso. Appena il passante sgranando gli occhi ne coglieva l’immagine e si affrettava a dar di mano alla macchina fotografica, alzava l’indice e perentoria diceva one dollar.
“Caspita, bel modo di far danaro” constatò Sandra tirando fuori la banconota.
Gli occhi dello squalo sorrisero riflettendo l’umorismo che scintillava in quelli della donna, che rimaneva a suo modo indecifrabile. Si esponeva ma non si denunciava. Esercita la stramba professione nelle vicinanze della cattedrale; in quei dintorni, tra le bancarelle del mercato di artigianato locale, aleggia uno spirito di puro divertimento, fissava rapida il momento Clara. E’ un cerchio assediato dai turisti, e chi si accaparra uno spazio in quella zona può perfino diventare ricco.
Subì il fascino della Santera più famosa di Cuba. Negli appunti annotò: passa le giornate seduta appena a ridosso dei portici, a incantare passanti con l’imponenza della mole e col nero profondo della pelle che spicca sotto le vesti bianche. Il vero richiamo viene dagli enormi iris rosso sangue appuntati sul turbante. Evocatori di riti ancestrali e sapienza iniziatica.
Non seppe resistere al magnetismo che emanava; accoccolata sulla piccola sedia offerta ai consultanti si pose in ascolto con cuore aperto. Le prime parole non la stupirono; fissandola con occhi roteanti e svaniti la donna aveva mormorato “sei come me, una veggente” e proseguito infilando una banalità dietro l’altra – era un lavoro turistico che svolgeva nella pubblica piazza - senza impegno. Poi, per farne dono a Clara, impastò e mescolò sulle labbra sapore di parole vane e colori e profumi e sostanza dei fiori carnosi i cui nomi andava sciorinando. Sandra porse tre dollari. La Santera fece intendere che l’offerta doveva essere a misura di quanto si snodava la cantilena, - che per Clara era stata lunga – “… coppa d’acqua dove respiri, tuberosa dove cammini, giacinti e garofani negli anfratti, fiore di giglio dove ti bagni… - aveva cantato investendola con la grevità sfiancante di ogni fiore. Ma da te va bene… va bene così,” comunicò attraversandola con lo sguardo.
Lasciarono l’Habana a bordo di un mezzo a noleggio scelto con pignoleria da Milena, considerato il programma di attraversare l’isola in lungo e largo. Nonostante l’auto fosse seminuova, giunsero in dirittura d’arrivo annunciandosi sul filo di freni che emettevano un rumore di barrito d’elefante addolorato. Non tutte le strade di Cuba sono come la carretera central anzi, su alcune spuntano improvvisi e indecenti e all’apparenza insuperabili, sconquassi che le fanno somigliare a faglie smosse da possenti terremoti, annotò Clara. La figlia si confermò asso della guida e macinò da sola i tremila chilometri di percorso, anche nei tratti più impervi.
Soltanto in un paio d’occasioni chiese che scendessero dall’auto per dirigerla in manovre di uscita da posizioni pericolose, come quando si erano avventurate su uno sconquassato ponticello di legno per andare a vedere un punto di spiaggia, oppure il giorno che imboccarono un sentiero all’interno di una foresta, seguendo un cartello indicante l’esistenza di un rifugio a cinque chilometri di distanza, confortate dalla sicurezza con cui un chico interpellato aveva risposto “sì sì, completo, recto. Bueno!” Completo y bueno un accidenti! Proseguirono imperterrite per un tratto, ammaliate dalla vegetazione lussureggiante che sembrava ricoprire a tetto il sentiero; felci enormi come baobab spuntavano dovunque, chiare e femminee a confronto con quanto altro le inglobava e circondava. Salite e discese e buche e argilla fangosa, del colore vischioso del sangue, le avevano fatte sudare sette camicie; benché il loro senso dell’avventura fosse al culmine, dovettero arrendersi di fronte a un sentiero che s’inerpicava troppo ripido e fangoso. In sovrappiù, minacciava di piovere, e decisero che sarebbe stato folle rischiare di far notte in quella situazione.
Tornate indietro, pur con qualche vago sospetto, si lasciarono irretire dall’invito di tre individui che offrivano una casa intera per venti dollari. Risero fino alle lacrime e scattarono foto alla conca di stagno in cui veniva scaldata l’acqua raccolta da una cisterna e ancora, quando nude al riparo di un anfratto di pietra si risciacquavano a vicenda con l’ausilio di una tazza di plastica. Al di là del pericolo presunto, quello rimaneva il gioco di poche ore. La tensione si palesò col buio. Fu notte di veglia. Imbacuccate per il freddo insolito e la mancanza di coperte, inquiete per la situazione nella quale si erano cacciate, nessuna di loro si sognò di dormire. A turno sorvegliavano ogni rumore e tenevano d’occhio l’auto. Sandra si sdraiava sul letto con gli occhiali da vista inforcati sul naso, tirando moccoli e dicendo ià- ce lo infilava sempre questo ià - ci voglio vedere bbuono anche se per disgrazzia mi addormento!
Non ci pioveva, la porta della baracca, sgangherata ma dignitosamente dipinta, non aveva chiusura di sicurezza e dalla tapparella era facilissimo infilare la mano e sbloccare il chiavistello. Una poltrona a dondolo messa a ridosso della stessa rappresentava l’unico baluardo da abbattere. Sarebbe stato divertente se non avessero avuto sentore di bruciato e una sottile paura non le avesse invase. La mattina seguente la casa fu come circondata, in attesa che uscisse Sandra – ente pagatore del gruppo! Mentre stavano organizzandosi per rimettere i bagagli nell’auto Clara, giratasi verso la capobanda - una donna dai tratti indio, zingareschi quasi - la colse nell’atto di sibilare tra i denti al ragazzo che le stava accanto:
“Donde tiene el dinero?”
“Ne la saqueta” rispondeva quello, che l’aveva osservata la sera innanzi mentre la costringeva a estrarlo con la scusa di un anticipo per pagare bevande e aragoste.
Invitate a fare un giro in barca fino al punto in cui si pescavano le aragoste finsero di accettare. Caricarono i bagagli, salirono in auto con uno degli uomini e giunte alla spiaggia lo scaricarono, gli misero dieci dollari in mano – la moglie aspettava un bambino e aveva detto se è femmina la chiamo Clara - e se la svignarono. Parlarono e riparlarono di quello scampato pericolo. Ci fu perfino chi disse loro che le avrebbero buttate in acqua dopo la rapina. In effetti, in quella specie di zona franca non avevano visto in giro né un turista né un poliziotto. Siamo state delle pazze, si ripeterono per il resto del viaggio.
A sera si concessero l’abbraccio dell’atmosfera calda e sicura di un residence di lusso. Quasi a schermare fuori di lì la miseria di tanta parte di quella terra, Clara cercava il sapore del benessere e di una vita forse trattenuta per i capelli. - Mi farò servire un moito e lascerò pigramente cadere a terra gli abiti impolverati e mi avvolgerò nell’asciugamano e a piedi nudi sorseggiando la bevanda raggiungerò il bordo della piscina e vuoterò il bicchiere d’un fiato e scivolerò come una foglia sull’acqua fresca. - Unica figura guizzante al chiaro di luna, si concesse di godere, libera, dell’immersione notturna; lasciandosi galleggiare poggiò lo sguardo sulla volta del cielo caraibico e increspò il labbro in un sorriso bambino scoprendo la meraviglia di Sirio che si stagliava in pieno fulgore appena al di sotto della falce di Iside. Per la prima volta nella vita le vedeva così vicine e sfavillanti. Riunite sotto al portico del cottage, le tre ragazze scaricavano la tensione chiacchierando fitto agitando braccia e sfiorandosi con le mani. Il tempo loro era più lontano a venire. Altre notti avrebbero trascorso sotto la madre luna che proteggeva la prescelta stella.
Notte fonda a Trinidad. Trinidad… Il suono potente del nome mantiene intatta la forza evocatrice di atmosfere da favola antiche e inquietanti. Pirateria e saccheggio e mercificazione di carne umana. A quelle radici succhiò latte tanta bellezza. Immagini oscure si aprono varchi attraverso i fili incantati della memoria e bruni e inebrianti e preziosi come chicchi di caffè snodati e sgranati dalla magia delle invisibili dita del profumo dell’aria che la permea. Merletti e porcellane e luminarie e illusione di ricchezza che non ha vie di fuga. Ma in libertà è concesso agli sguardi rubare respiri e caldi e indolenti e intimi all’interno di spazi e retaggi di opulenze che si offrono al tramonto in guisa di primedonne in vetrina. Trinidad che si agghinda e si veste di musica e si regala – oggi - in spettacoli di piazza, Trinidad viva oltre la vergogna di un tempo che continua a occhieggiare, famelico, dai meandri dei vicoli, Trinidad e la vuota Chiesa, immacolata nel guscio che abbraccia, a stridente contrasto, altari lignei e intricati e scuri come la pelle dei nativi, Trinidad e le brune fanciulle, incoronate e splendenti negli abiti da parata con cui festeggiano il varco dei quindici anni. Seppero dell’usanza da Margarita, i cui occhi scintillavano dinanzi ai ritratti della figlia.
“Ma questo è un abito da sposa! Così giovane!” meravigliò Clara le cui figlie, sulla trentina, non palesavano alcuna intenzione di maritarsi.
“No!” aveva risposto ridendo a piena gola la donna, esperta della sorpresa dei turisti e orgogliosa della splendida adolescente raffigurata in quella gran quantità di foto.
Ne mostrò loro tantissime, donia Margarita, alta e bella e rigogliosa padrona della casa in cui dormirono e del paladar in cui cenarono. Una benestante, dunque.
“E’ la festa della maggiore età, e alle ragazze si regala un servizio fotografico!” Investivano una fortuna perché le femmine assaporassero il gusto del sogno di sentirsi regine per un lungo giorno.
Giorno di vaghezze spese nel volgere di poche ore, tanta frenesia di comparire e sfolgorare, simulacri di eterne falene bruciati nell’illusione di essere e non soltanto di esistere - foto incorniciate a perpetuare l’inganno, batteva senza pause e interiezioni il cuore di Clara mentre con gli occhi s’incantava a guardare la ragazza e gli abiti e gli sfondi contro i quali l’avevano pietrificata. Quella che lei riteneva un’illusione, per le giovani di una Trinidad fiorente in apparenza, doveva necessariamente rappresentare una realtà alla quale aggrapparsi per non cominciare a morire a quindici anni. Dietro l’angolo del finto lusso si snodano strade acciottolate, file di pareti umide e penzolano lampadine fulminate lasciate appese così ché cambiarle costa caro. Un dollaro. Si allungano figure di femmine ormai adulte e disincantate che ingombrano i marciapiedi facendo il verso di strofinarsi le braccia per far capire che chiedono sapone. Ma c’è anche una salda rete di solidarietà e dovunque si dividono i turisti in maniera equa. Coscienza, forse, di un uguale livello di povertà da superare senza fare invidia a nessuno.
E ancora, correvano i pensieri sganciati e ormai scatenati: illuminata e linda la piazza centrale di Trinidad e le vie collaterali ristrutturate rilucono nella notte con i colori pastello sfumati dai riflessi dei lampioni di foggia antiquata. Trinidad carne e passione frammento sospiro fame cristallo prezioso nel grembo di una terra povera. Vano curarsi dell’ordinarietà a venire, dell’ipotesi di un solo viaggio nel corso della vita, magari fino all’Habana a osannare un dio. Un viaggio, perfino quello, che per molti rimane un sogno. Quale filtro infernale rende invisibili i treni che attraversano Cuba? Perché si perpetua l’illusione di una strada ferrata che di reale ha soltanto la ruggine delle rotaie corrose e abbandonate e sperse nell’infinito di un cielo?
Alla fine del viaggio calcolarono un percorso di tremila chilometri. Tremila chilometri per attraversare il cuore di una nazione abitata per la maggior parte da fantasmi che non sanno di esserlo. Chi sa deve pretendere di ignorarlo. Tristezza, scrive Clara su un foglio, e ancora: l’aria stessa sembra filtrata, passata al vaglio del controllo poliziesco. Non l’aria che entra fisicamente nei polmoni, spessa e nera; con quella il cubano può convivere. Libero pensiero, sei tu la vittima quotidiana; qui, per le ultimissime generazioni non esiste nemmeno più il concetto di quest’ inalienabile ricchezza dell’uomo
Sandra e Clara si accalorano in quei discorsi e insieme lanciano messaggi alle altre due giovani, discutendo del dramma che si svolge sotto i loro occhi. Le parole di Sandra hanno maggiore possibilità di fare breccia, ché pronunciate da una coetanea sembrano più leggere e si condividono meglio. Alle prese con pensieri loro, Maila e Milena tendevano a estraniarsi dalla realtà circostante. Ognuno ha nodi da sciogliere, intricati e dolorosi… A volte il resto sembra rimanere ostinatamente chiuso fuori, incide Clara nel cuore e osserva senza averne l’intenzione. Accarezza la figlia con gli occhi; il cuore rimane inquieto. Il viaggio si rivelava per lei, colmo più di un vaso di Pandora.
Attraversando le strade di una cittadina dell’interno, un giorno videro gli alunni di una scolaresca sfilare con appeso al collo il ritratto di un eroe cubano. Da sventolare sotto agli occhi dei passanti affinché tengano sempre presente che Cuba ha martiri da vendere, fu l’impressione che scambiarono tra loro.
“Sì, martiri assetati del sangue di ogni cubano vivente. Lo straniero che paga per vedere ha il dovere di agghiacciare. Non per i martiri assetati, bensì per la libertà stessa dei cuori cubani, che giace sepolta sotto montagne di slogan ottusi e crudeli,” invelenì Milena fissando la scena con una sorta d’orrore, come svegliatasi d’un tratto dinanzi a un quadro dipinto a forza su mucchi di macerie svettanti in cima a una città bersagliata, e riappropriandosi della percezione della solidità della terra che calpestava.
Maila la prese per mano e le carezzò i capelli. Sapeva che dietro la scorza di donne forti si celano strati di snervanti insicurezze da superare. In qualche modo Milena era la più fragile tra loro, introversa e coraggiosa e limpida nei sentimenti com’era.
“Ragazze, se continuiamo così sapete che vi dico?” disse con tono da imbonitrice Maila, per sciogliere quel nodo, “che avremmo fatto meglio a partire per Sharm-el-Sheik! Non ci possiamo accollare tanto sperdimento in un viaggio solo e poi, situazioni durissime le hanno vissute tutti i popoli e la storia insegna che quando arriva il momento giusto, si riscuotono e vanno avanti.”
Girato il bel panama sulle ventitré cicalò: “ià, faciteme ‘na foto che tengo voglia ‘e fa’ ‘nu bello sorriso!” Maila, nata a Torino, viveva anche lei in Campania, e ogni tanto sparava qualche frase in napoletano.
Terminato il giro dell’isola rientravano a l’Habana e ripartivano l’indomani per Cayo largo, presunta vera oasi di Cuba. Durante le mattinate trascorse sulle spiagge, scrive Clara ormai invaghita e rapita da quella necessità, passeggio lasciandole ad allungare le membra al sole. Io no, ho bisogno di calpestare qualcosa, di lavarmi di dosso il nerofumo. La bellezza impossibile delle distese candide di sabbia invita a non voltarsi indietro e mi avventuro oltre il limite della visibilità. Procedendo verso una laguna, lontano da tutti incontro un angolo su cui stanno sdraiati al sole gli amanti della natura. Anch’io trovo offensivo verso la purezza di queste trasparenti acque, coprire la virgineità di membra create, e le denudo ogni volta che mi immergo sotto il livello dell’onda.
In solitudine cammino e scruto lungo il filo della spuma – rigonfia e leggera come meringa liquefatta – e mi piego e m’inchino alla ricerca di frammenti e piccole conchas da portarmi dietro fino ai vassoi di casa mia già colmi di mille scintille di mare. Ci rubo dentro l’odore dell’isola e il cristallo liquido che si colora dei verdi e dei blu impazziti e mi rubo via l’amore per la vita che non si placa e si insinua fra le onde e della loro sostanza-che-non-c’è si appropria mentre si lascia abbindolare e scivola e si mescola e si diluisce e mai si lascia soffocare…medita fra sé, mentre percorre il tragitto tra una laguna e l’altra, piccola e inadeguata di fronte a misteri che stordiscono. Tale è la vastità del tratto di sabbia che mi trovo a calpestare, che vengo irretita da un senso di sperdimento e dall’illusione di trovarmi nel cuore di un deserto. La gola riarde dalla sete e sono afferrata dal bisogno d’acqua fresca sulle labbra e del tocco  della mano di qualcuno e di abbracciare Milena e proteggerla dal mondo. Fiuto il pericolo in agguato dentro di me e non lo so sfidare. Lancia lo sguardo più lontano che può, cercando di scorgere il punto da cui è partita e s’affretta a tornare indietro.
Punta delle Sirene, casa magnifica di ospiti che non possono intrattenersi con noi. Turista-uomo-sandwich-coperto-di-dollari ti è permesso entrare sfilare fotografare bearti la vista e gli istinti rodendo la bellezza straripante dell’isola. Il cubano trova porte sprangate; militari armati controllano l’accesso ai cayos, angoli di paradiso sui quali gli occhi dei nativi non hanno il diritto di posare. L’intento non è soltanto quello di lasciare spazi incontaminati dalla miseria, ma anche d’impedire scambio di idee; voce di mondo diversità di opinioni facce di realtà viste anche attraverso occhi stranieri, devono trovare ostacoli prima di arrivare al cuore del popolo. I pensieri serpeggiano ormai con rabbia dolorosa dentro le vene di Clara. Si guarda intorno e immagina che molti cubani benedirebbero lo Speaker’s Corner a Londra, padroni lì, di dire quello che in patria non osano comunicare nemmeno con gli occhi.
Villaggi attraversati, favelas fatiscenti, pullulare di creature che occupano strade assolate, ignare della dimensione del tempo. Clara continua a fermare pensieri: ripassare nello stesso luogo dopo ore e trovare, fissati nell’aria come foto passate nell’acido, le medesime figure accosciate in attesa di un passaggio e sventolanti con mano indolente e rassegnata un dollaro per il favore. Obolo per la grazia. Non fantasie da cult-movie gli autobus sgangherati tenuti insieme dalla disperazione e i carretti tirati da cavalli, transitanti sulla carrettera principal di notte al buio e contromano sulla corsia veloce; né il cosiddetto portatore di handicap libero di manovrare freneticamente la manovella della carrozzina per guadagnarsi la via che dall’autostrada lo porterà al sentiero e fino alla baracca nei campi e al banjo tropical – niente di esotico, - un cesso al riparo dei campi, né i simulacri di camion - quelli che altrove riempiono spazi negli impianti di demolizione - pieni qui, di esseri umani pigiati insieme all’impiedi come asparagi messi a bollire in una pentola, stretti per non cadere e stremati all’andata e al ritorno dai campi. Le ragazze scattavano foto su foto, per portare con sé quello che gli occhi vedevano e per non dimenticare i contorni reali di tanta bellezza.
Aragoste e pollo e carne di maiale e piatti ricolmi di frutta esotica succosa e sensuale, per il turista che sventola sfacciatissimi dollari. File da tempo di guerra di gente che si confonde col nulla delle facciate di spacci di regime colmi di pane e miseria affogati nell’olio bollente di Unidos Venceremos e Viva la Revoluçion, per i cubani assediati dall’interno dall’incubo del culto di un attacco contro il quale si impone loro di non smettere un solo istante di dimenticare che sono vivi. Anacronistici morti viventi, follia collettiva coagulata, pasto quotidiano per la voracità di un carisma che delle loro anime si nutre.
Clara culla dentro di sé, come riposto in un angolo della sacca rossa, il pensiero di una donna triste e opaca conosciuta in un albergo di lusso, poche sere prima. Come ti chiami? domandava schivando l’inciampo delle formalità e dei convenevoli – roba da paesi ricchi. Seduta davanti alla tazza di caffè confessava il nome sontuoso di un angelo. Alta, un filo di sorriso l’avrebbe resa bella. Un lavoro che altrove si definiva brillante. Presa confidenza con la forestiera sospirava e affermava che le sarebbe piaciuto diventare medico.
Superata ogni reticenza Clara incalzava: ma allora il regime concede di studiare a patto che si costituisca un investimento… e tu che per disgrazia hai mostrato talento per il calcolo scientifico, le corsie e i bisognosi te li sei dovuti dimenticare…
Pronunciava la frase a filo di voce, non la caricava della violenza di toni interrogatori, per non obbligare la donna a rispondere; lasciava la via di fuga della finzione di non aver udito. Con un giro di pensiero da occidentale, valutava che non si offriva cultura al popolo e paragonava gli studenti cubani a prigionieri di antiche tribù cannibali nutriti con i migliori bocconi, al fine di poter con più gusto essere spolpati, in seguito, di una maggiore quantità di carne.
Da tanti anni, uno straniero che aveva denaro da spendere e non amava la solitudine fisica benché la promiscuità lo spaventasse, prendeva la donna triste in affitto – così definì Clara quella specie d’intesa – e spacciandola per consorte, grazie alle conoscenze che aveva continuava a condurla con sé nei tempi delle permanenze sull’isola. Per questo le era permesso entrare e alloggiare in albergo. Maria de los Angeles, madre di un figlio, sognava per lui un futuro di libertà e sacrificava a quella lontana ipotesi la dignità che i maestosi alberi della città tentavano di riparare, verdeggiando sullo sconcio di certe realtà. Clara si era vergognata di respirare con i polmoni della turista; aveva sentito la necessità di stringerla a sé e spartire con lei sapore di lacrime. “No olvidarnos,” aveva pregato Maria de los Angeles porgendole il proprio indirizzo e-mail - una delle poche privilegiate a possederne uno. Ma quando Clara aveva provato a scrivere, era tornata indietro una mail delivery che annunciava: failed.
In aeroporto, al giovane che controllando il passaporto chiede se Cuba le sia piaciuta, Clara risponde che sì, è una terra bellissima, tanto verde e tanto mare un luogo da visitare e da godere e ciao tutto a posto posso andare? Muta seguita la cantilena: bravi i cubani belli i cubani bella la salsa bello lo mare bello lo sole belle le strade belle baracche bella la fame bella la vita bello Fidel e chi lo vede bella casa mia che non vedo l’ora di tornare. Scambio di finti sorrisi; come ogni viaggiatore, paga la tassa di venticinque dollari per riscattarsi il diritto alla partenza e scivola rapida oltre la porta che, varcata in colpevole silenzio, le garantisce un’uscita indisturbata da Cuba.  Paese al cui apice batte un cuore imbalsamato. Un cuore di Moloch. Un cuore che macina dollari di cui i cubani non sentiranno mai nemmeno lo sporco odore. Scandisce lentamente e con forza il pensiero dentro di sé affinché s’imprima nella coscienza; subito dopo ne soffia la vela.
In attesa di imbarcarsi sul volo continua a sgrossare l’opera. Lo fa subito, lì e allora, poiché l’aria di casa contamina l’emozione del dolore: non vaglio e non indago sottigliezze di segrete lotte di potere politico, ma vedo e comprendo e dico che se c’è amore non si obbligano i figli a rimanere in casa minacciandoli di negar loro il rientro, desiderassero osare avventurarsi fuori; non s’impone la mera sopravvivenza oltre il limite dell’assurdo. Ci si prostituisce piuttosto. In tali abissi cadi se finisci per amare te stesso sopra ogni altra cosa; può essere allora che diventi crudele, e seppure vedi la famiglia in rovina scegli di puntare il dito sempre e comunque contro il male che viene da fuori - più facile esecrare un nemico piuttosto che sprofondare nella palese impossibilità di guarire piaghe lasciate infettare e imputridire oltre il limite del sanabile. I sensi dolenti esternano e riassorbono e depositano in archivi sospesi quanto va elaborando. Sfinita, scivola su una poltrona con la mollezza di un pupo cui abbiano tagliato i fili. Leverò la piccola voce che possiedo per spargere questi semi e fecondare il mio millimetro di terra e metterò a frutto il talento e solo dagli stolti vorrò essere pagata. Ma in un mondo troppo vasto perfino gli spazi segreti racchiusi all’interno delle mura di casa si sperdono oltre oscuri confini, a volte…
Sandra sproloquiava ancora di serpenti con le orecchie, dicendo di averne visti spuntare da ogni dove. Capisse chi voleva capire. Maila camminava col braccio intorno alle spalle di un amico dell’affittuario della donna triste – rientravano con il loro stesso volo – quasi volesse convincerlo a stipulare una polizza assicurativa. Quando Clara glielo fece notare, piccato nell’orgoglio disse che aveva fatto un’osservazione banale. Forte del possesso di una villa su un’isola bellissima, pensando di irretire era stato circuito. Trascurato per quindici lunghi giorni il lavoro che svolgeva con profitto e le offriva la sicurezza di sentirsi indipendente, la ragazza non vedeva l’ora di rientrare nel ruolo.
Milena – novella Santera, disegnava schizzi di ipotetici progetti da attuare e ugualmente rapita, impastava e mescolava fantasmagorie e grovigli di rovine e colonne e grate e terrazze e portici e pelle scura e sorrisi di denti bianchi e fianchi ondeggianti di sirene. Maronna… sospirò d’un tratto alla maniera della madre, navigando tra sogni e polvere di stelle disseminate sulla Via Lattea.
Il progetto del secolo. Mettere davvero mano a questa città, s’infervorò d’improvviso scatenando le parole nella mente. L’hanno dichiarata patrimonio dell’umanità, e allora l’umanità ha il diritto-dovere di aprire qui il più grande cantiere del mondo! Nessun’altra capitale della Terra potrebbe costituire sfida più grande. Ve l’immaginate… Nessuna risposta era attesa dal gridare muto. Fu sazia d’emozione.
C’era da scatenare fuochi con l’energia che sprizzava da loro. Clara, simile a una mamma-uccello desiderosa di spalancare le ali per proteggere i piccoli, si astenne dall’iniziare una filippica su argomenti concreti. Giusto che lei partisse da lì con uno stato d’animo combattuto. Giusto che le tre giovani donne, con davanti a sé anni per scontrarsi con il dolore, portassero via, per la durata di un soffio, il colore del mare senza macchia e del verde degli alberi millenari e pazienti, offesi sì ma vigili e saggi come maghi in attesa di vedere la luce forzare la via attraverso intrichi da lungo tempo impenetrabili. Partivano gravate del peso di tanta bellezza, di un sole che attraversa rami come a ferire la terra, del frusciare di un vento – unico dio libero di trasportare pensieri - e dello stordire di una musica sempre uguale sempre quella.
Le proprie sfide lanciate e vissute, Clara sa che su quell’onda figli e figlie della Terra solleveranno il mondo. Prende la figlia sottobraccio e senza intenzione di urtarla con le parole, voltandosi indietro a lanciare una delle sue impossibili preghiere alla madonna di tutti i cieli mormora:
“Fa che il turismo a Cuba non abbia a essere la causa della perpetuazione della morte civile dei cubani.”
          Emozioni da un viaggio a Cuba
Autore: Laura Onofri